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La bellezza perduta - Fotografie di Enzo Crispino

  • Quando:   15/12/2018 - 03/02/2019
  • evento concluso
La bellezza perduta - Fotografie di Enzo Crispino

Emanuele Ferrari
Trattenere, ascoltare.
Come i racconti di Kafka.
 
Forse gli antichi greci avevano compreso qualcosa di profondo sul senso delle immagini.
Prima ancora di scoprirle come idee le chiamavano infatti fantasmi: cose che fuggono, e mentre le guardi si perdono.
Tu sei lì, loro sono altrove.
E poi, a proposito delle cose, uno di loro di nome Anassimandro, il primo a costruire una mappa del mondo, aveva detto che le cose si dividono in due: le cose da una parte e le cose che sono dall’altra. In un frammento passato alla storia aveva anche provato a chiarire il rapporto tra le due dimensioni, o forse meglio dire modi di essere e apparire delle cose, lasciandoci scritta una cosa che somiglia a questo pensiero arrotolato: “le une alle altre pagano la colpa di essere nate secondo l’ordine ingiusto del tempo.”
Anassimandro era anche quello che, sempre tra i primi, aveva tentato di definire il principio su cui si fonda il mondo. L’aveva chiamato a-peiron, cioè il senza confini, lo sconfinato. Forse anche l’infinito.
 
Succede a volte anche a noi, anche qui, di sostare davanti a un’immagine. Di fermarci in quella che si potrebbe chiamare letteralmente contemplazione.
Cosa facciamo davvero? Siamo sicuri che la cosa migliore da fare, davanti a un’immagine, sia guardare?
A guardare le immagini di Enzo mi viene da dire di no. Guardare certo, ma non solo.
Davanti a queste immagini, davanti a questi fantasmi di una bellezza perduta, io credo che la cosa migliore sia ascoltare.
Aprire le orecchie attraverso gli occhi, mi verrebbe da dire.
Solo mettendosi in ascolto di queste cose, credo sia infatti possibile arrivare a cogliere le cose che sono, forse anche a trattenere nel nostro sguardo, come fosse davvero il luogo di quell’ascolto, la bellezza che quelle cose hanno portato dentro il mondo, la bellezza che ancora le segna, nel loro svanire, nella distanza che ci separa, noi che siamo qui, loro che sono altrove.
 
Dalle fotografie di Enzo si sente subito il respiro di una certa umanità. Oggi sempre più rara. Le immagini che letteralmente compone mi pare che nascano sempre da un ascolto profondo di quella che è la realtà come ci appare, nella sua nudità, a volte anche nella sua crudezza. Ma forse, ancora prima che dal mondo di fuori, questi fantasmi che fuggono sono il condensato di luce di una musica interiore. Un suono che nasce da un battito di cuore, il ritmo di un respiro, e si accorda con lo sguardo e coglie le cose in quello che sono (forse proprio nel loro ri-suonare), le coglie, per dirla con Eugenio Montale, in quella eternità d’istante che ciascuno di noi si porta “scolpita dentro” e che ci lega appunto a loro, nonostante la distanza che ci separa, o forse proprio grazie a quella distanza.
 
Questa musica misteriosa emerge da queste case abbandonate, da questi teatri vuoti, da spiagge dove la sabbia occupa quasi tutto lo spazio ed esitano sedie rovesciate, canestri in attesa di un pallone, reti squarciate in una fuga di nuvole sulla linea del mare. Questa musica misteriosa emerge da una profondità, che si scioglie con quieta dolcezza, quasi con tenerezza, nella partitura di una visione: diventa superficie che vibra, gesto che soffia in un movimento.
 
C’è un filo conduttore, un’energia arcana che accompagna queste immagini e con queste il suo autore. Filo ed energia che arrivano anche a noi, a chi guarda. Agli spettatori appunto: che aspettano e allo stesso tempo si muovono con gli occhi, da una ricerca all’altra, da un luogo all’altro.
 
Da questo tempo dell’altrove che si trasforma in un altrove del tempo, come ho già scritto qualche volta, su qualche altra carta, non ricordo se fosse una mappa.
 
La musica che sento arrivare da questa Sinfonia della Bellezza perduta di Enzo è la stessa che mi accade quando leggo i racconti di Kafka, o i romanzi di Georges Perec, le poesie di Billy Collins o Emily Dickinson, i pensieri folgoranti di Wittgenstein.
Scrivo qui queste cose, questi nomi, perché qualcuno dopo aver visto e ascoltato, possa, se vuole, continuare il viaggio, in cerca di altri fantasmi.
 
Non so se alla fine tutto questo renda giustizia all’ordine del tempo, per tornare al buon Anassimandro, forse no. Ma se per un attimo siamo riusciti a sottrarre qualche minuto alla tirannia di Crono, che ingoia i propri figli, e ci siamo ripresi il filo del tempo opportuno, quello che sempre i greci chiamavano Kairòs, provando a trattenere, a custodire nell’incertezza di un apparire, anche una sola presenza dell’essere, beh allora io credo ne sia valsa la pena.
Ne vale sempre la pena. Per noi esseri umani.
Che siamo in ogni momento quel che diventiamo.
Che diventiamo quello che siamo. Ogni giorno.
Nei giorni più belli.
Ma anche nei giorni perduti.

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