Giovedì 3 ottobre 2024, in occasione di START – la notte bianca dell'arte moderna e contemporanea, la Galleria Rossetti inaugura l'apertura della nuova stagione espositiva e presenta "Il rosso è vendicativo", la mostra personale di Alessandra Gasparini, un'artista poliedrica che, con il suo talento, si fa emblema della libertà d'espressione e dell'apertura verso la conoscenza e l'istinto.
La mostra, visitabile fino al 3 novembre 2024, è curata da Alessandra Redaelli. L'artista possiede un mondo, dentro, così imponente e così gremito di suggestioni e di immagini che quando sgorga sulla tela vi si distende in narrazioni complesse, ricchissime, impossibili a cogliersi al primo sguardo. Dipinti dalla costruzione lenta e minuziosa, impeccabili nella concatenazione dei nessi logici e, tuttavia, pregni di un'istintualità che non passa inosservata, di una creatività selvaggia, indomabile, che è poi l'ingrediente dell'incanto.
Protagonisti della pittura di Gasparini sono i bambini. Mai scelti a caso, belli di una bellezza niente affatto leziosa ma piuttosto aspra, ruvida; bambini che non hanno ancora perso la capacità di credere in sé tipica dell'infanzia, il senso di onnipotenza che inchioda l'adulto alla relatività delle proprie convinzioni. Non ancora umani, come li definisce l'artista, certamente non ancora addomesticati dalla maschera dell'adultità.
Una delle particolarità uniche dell'artista è il suo diletto nel proseguire la narrazione aggiungendo un pezzo della storia dietro la tela intelaiata. E' lo spazio della libertà, "lo sberleffo alla limitatezza dei confini della tela". Nella vetrina principale verrà posizionata un'installazione con il dipinto "Avevo una sedia", sul retro del quale una ragazzina nuda appare rannicchiata su una seduta, meditabonda su come usare il grande barattolo di pittura rossa che tiene accanto a sé. Lì vicino la scritta: "Quando il rosso chiama è meglio assecondarlo. Il rosso è vendicativo".
Nell'occasione dell'apertura della mostra, la galleria inaugurerà un nuovo spazio espositivo, il Rossetti Lab, il quale, per tutta la durata della mostra, ospiterà le opere dell'artista realizzate con tecniche e formati differenti, per dare la possibilità a tutti i visitatori di avere una visione completa delle tematiche e della filosofia dell'artista. Questo nuovo spazio espositivo si trova accanto alla galleria, in via Chiabrera 41r, e verrà utilizzato nel restante periodo dell'anno per accogliere nuove opere ed artisti, in una dimensione più intima.
Testo critico di Alessandra Redaelli
La bambina si coglie qualche istante dopo, nel momento in cui si cerca di dare un senso alla montagna di stoffa bianca che incombe e che fa vacillare lo sguardo. Bianco, poi, è una definizione quanto mai insufficiente: le sfumature vanno dalla neve al burro, dal ghiaccio alla perla e ancora all'avorio, alla panna, fino a sfiorare i beige e i grigi. Quei petali di stoffa sono scolpiti in panneggio dalla luce, e rifiniti da smerlature e orli a giorno che in un attimo ci hanno già trasportati in un altrove della nostra infanzia, quando la nonna ci lasciava frugare tra i suoi vecchi bauli e noi ci appoggiavamo davanti al corpo quella camicia da notte rigida, casta, di un tessuto che profumava ancora di lavanda, e che ci arrivava ai piedi facendoci sognare di essere principesse. La bambina arriva dopo, dicevamo. E non appena lo sguardo la intercetta, con quella testa inclinata dal peso della cornice che la schiaccia giù, avvertiamo una sorta di brivido sottopelle perché ci rendiamo conto di trovarci davanti a qualcosa di assolutamente inedito. E l'inedito seduce e fa paura. Dunque quella montagna di stoffa è una gonna, una gonna impossibile, la cui lunghezza contraddice qualsiasi logica e qualsiasi proporzione ma che ci ricorda un'altra gonna – anche lì tracce di un biancore cangiante – e un'altra bambina, la protagonista di Las Meninas di Velázquez, uno dei dipinti più enigmatici di sempre. Poi, salendo con lo sguardo, ecco apparirci evidente che cosa schiaccia quella piccola testa: altre stoffe e altre bordature merlate. E la sensazione che quella creatura sia prigioniera di un meccanismo rotante, una sorta di tortura a cui si presta sorridente come una santa martire, ci lascia per un istante ghiacciati. Ma forse quello è solo il ciclo della storia, il cerchio della vita, e la bambina può ancora scegliere se farsi annientare dal peso di chi è venuto prima di lei oppure utilizzare tutto quell'ingombrante passato per una lucida analisi su di sé. Del violino che le sta dietro la testa come il più scomodo dei cuscini chiederemo conto al nostro cervello più tardi. Quello che è certo, tuttavia, è che quando ci siamo allontanati dal dipinto convinti di essere riusciti a sottrarci al suo incantesimo e poi, pentiti, cediamo alla tentazione di guardarlo di nuovo, la testa schiacciata diventa quella del Cristo di Tintoretto nella Crocifissione di San Rocco.
Alessandra Gasparini possiede un mondo, dentro, così imponente e così gremito di suggestioni e di immagini che quando sgorga sulla tela vi si distende in narrazioni complesse, ricchissime, impossibili a cogliersi al primo sguardo. Dipinti dalla costruzione lenta e minuziosa, impeccabili nella concatenazione dei nessi logici – o illogici – e tuttavia pregni di un'istintualità che non passa inosservata, di una creatività selvaggia, indomabile, che è poi l'ingrediente dell'incanto. "Un continuo baratto tra la mia mente e il quadro", così l'artista definisce il processo creativo. Con un primo progetto mentale e un primo abbozzo volutamente grossolano, poco dettagliato, perché paradossalmente è proprio il dettaglio qui a determinare lo spazio del gesto e della libertà, dell'improvvisazione, del pennello che va seguendo una sua musica interna, come in una meditazione. E questo lasciarsi andare alla volontà della pittura è tale da costringerla, qualche volta, ad aggiungere un pezzo di tela, sotto al quadro iniziato. Perché la sua narrazione deve andare avanti e non si può arrestare. Del resto Gasparini appare proprio così: istinto e ragione, Sturm und Drang e Encyclopédie. Lo si coglie nel suo modo di essere estremamente lucida nel raccontarsi e tuttavia così appassionata. Nei diari che tiene compulsivamente da anni, grandi quaderni dove la calligrafia da amanuense si alterna alla freschezza squisita del disegno di getto, dove l'appunto tecnico fa da contraltare alla riflessione, al promemoria: caos calmo senza sbavature. E lo si coglie nello spazio che abita, uno studio che è nido, atelier e Wunderkammer, dove la sua pittura spalanca enigmi accanto a file e file di barattoli di colore ordinati come soldatini.
Istinto e ragione che si incontrano sulle tele nel dialogo serrato tra la minuzia chirurgica del dettaglio (il pavimento di graniglia del quale si ha la sensazione di poter saggiare le asperità con i polpastrelli, i bordi delle stoffe che sembrano sollevarsi) e il gesto astratto, libero, che spesso Gasparini riserva ai bordi, come se una forza centrifuga pervadesse il dipinto. Perché lei si è innamorata del disegno da piccola e lo ha coltivato caparbiamente, contro tutto e tutti, scoprendo in quell'attività il gesto che la riconciliava con la realtà (al punto che disegnare le era più utile che non prendere appunti per memorizzare le lezioni al liceo), ma poi ha saputo andare oltre, scegliendo di approfondire l'astrazione, in Accademia, per entrare dentro al colore ma soprattutto per imparare a destrutturare la realtà, per scompaginare la visione e trovare così la propria voce autentica.... leggi il resto dell'articolo»
Protagonisti della pittura di Gasparini sono i bambini. Mai scelti a caso, belli di una bellezza niente affatto leziosa ma piuttosto aspra, ruvida; capaci di sguardi che ci costringono a interrogarci senza darci scampo. Bambini che non hanno ancora perso la capacità di credere in sé tipica dell'infanzia, il senso di onnipotenza che inchioda l'adulto alla relatività delle proprie convinzioni. Non ancora umani, come li definisce l'artista, certamente non ancora addomesticati dalla maschera dell'adultità. Bambine, per lo più, ma non necessariamente. Magari il nostro cervello vuole definirle tali perché indossano abiti gonfi, come la Damarmadillo che troneggia su strati di gonne bianche e che da quegli stessi strati è schiacciata. Ma non mi pare il dato più importante. Ci interessa di più il modo in cui queste creature rideterminano lo spazio, come la Guglielmina di La pittura è viva e prende il caffè, dove la protagonista, prozia dell'artista che emerge ieratica da un ritratto di famiglia, spezza le catene e da quel ritratto fugge, frantumandone la superficie con due mani eleganti, ingioiellate, a reggere da un lato una tazzina di caffè e dall'altro – forse – un ventaglio. Il dato di incertezza che costringe lo sguardo a darsi delle spiegazioni a tutti i costi è particolarmente interessante, non solo perché possiede un evidente carattere ipnotico, ma anche perché dice tanto del nostro bisogno di sapere. Quando invece, a dirla tutta, noi non sappiamo un bel niente. Smaschera senza pietà la nostra ansia di controllo. Perché alla fine, in tutta sincerità, quale spiegazione potremmo mai dare di quella parete sotto al ritratto che da un certo punto in poi diventa tessuto, balza di una gonna che resta però a tutti gli effetti parete ma che avviluppa dentro di sé, moltiplicandoli, lo sguardo indagatore del gatto e la rosa recisa nel vaso, appoggiati, entrambi, su due sedie di paglia intrecciata? E di quel pavimento di graniglia che vi si innesta, come risucchiato, diventando a sua volta soffice panneggio fino a farci venire voglia di affondarvi le mani? La pittura è viva, dunque, e ci travolge. Poi, ripreso il fiato, buttiamo lo sguardo ai due lati del ritratto e finalmente intercettiamo le due fotografie in bianco e nero attaccate alla bell'e meglio sul muro con quattro pezzi di nastro adesivo (capolavori di iperrealismo, questi): Guglielmina che viene e Guglielmina che va. Due immagini che potrebbero essere state scattate tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento di una ragazzina di fronte e di spalle. Copiate da reali fotografie, certo: con il pennello di Gasparini affilato come un bisturi che ce le rende più vere del vero. Quanto tempo ci metteremo a realizzare che all'epoca una fotografia di spalle non sarebbe mai stata scattata?
E' l'irrompere dell'impossibile, dell'improbabile, della magia che fa male agli occhi per quanto sembra vera. E su tutto una sistematica distribuzione di oggetti che riconosciamo come nostri, patrimonio di memorie condivise che agiscono nel cuore e nella testa come inneschi: le sedie con lo schienale di legno scolpito e la seduta in paglia intrecciata (le sue, nello specifico, sono le "chiavarine", dalla tradizione di Chiavari, poco lontano dalla città dove l'artista ha vissuto: Sestri Levante), il copriletto con quello specifico decoro floreale che tutti, almeno una volta, abbiamo scovato nella casa di qualche parente, la palla da salto che si faceva girare intorno alla caviglia, i fiori di loto essiccati o – appunto – il pavimento di graniglia minuta su cui abbiamo giocato bambini, a pancia in giù, seguendo i percorsi della fantasia. Se nel caffè di Guglielmina il pavimento è panneggio soffice, in Cuori di carta avvolge la protagonista in un abbraccio soffocante, facendosi sottile, sì, ma non morbido, piuttosto aspro, come una buccia rigida o addirittura come una lamina metallica i cui bordi potrebbero ferire. E lei, la ragazza che lo indossa, ci guarda con un mezzo sogghigno, il viso che emerge da un rotolo rigido facendone una giovane regina delle carte.
Pur muovendosi all'interno di un alfabeto con cui alla fine, dipinto dopo dipinto, possiamo sentirci di familiarizzare, Gasparini non è mai prevedibile, gestendo ogni pezzo come un unicum e scegliendo se occuparne lo spazio fino all'ultimo centimetro o se lasciare ampie zone d'aria – che non sono mai vuoto. In Madame Cornac, la gonna della ragazza è un'ipertrofica fioritura scarlatta che più che abito si rivela una cavalcatura, e infatti, sotto, emergono i dettagli di un muso di elefante, di un occhio di cavallo (specchio in cui intravediamo l'artista) e di un coccodrillo. E un senso di pienezza, enfatizzato dal movimento convesso dell'opera, lo dà anche La cappella votiva, il dipinto dove appare più esplicito il contenuto mistico sotteso a tutti i lavori di Gasparini. Qui la sensazione della metamorfosi dei materiali è vivida, tangibile, con la gonna che va pian piano a solidificarsi in marmo lucente e con il volto stesso della fanciulla che impallidisce fino a una consistenza pietrosa, mentre il contrasto si acuisce nella cromia accesa degli ex-voto, cuori fiammeggianti che punteggiano la figura ma che sorprendentemente in alcuni punti lasciano spazio ad altro: la testa colorata di un gallo, un pesce, uno squarcio da cui emerge prepotente il rosso.
Una diversa gestione dello spazio caratterizza invece lavori come Amina Irebla Oleic (anima, alberi e cielo scritti al contrario a formare un nome esotico), dove la figura – un'adolescente resa saggia da un monocolo, vestita di un abito dall'apparenza friabile e con un braccio bloccato contro le spine di un fico d'India – galleggia dentro una foresta impenetrabile, illuminata da bagliori liquidi, mentre ai suoi piedi un cielo nebuloso, capovolto, ospita tre alberi spogli e solitari. O anche Quando sarò grande, dove la futura pittrice fluttua su una tavolozza verso il proprio destino come su un disco volante, le zeppe altissime a farla già adulta, un pupazzo decapitato e riempito di pittura trasformato in un attrezzo del mestiere, mentre dalla testa le spunta un'altra testa, con uno sguardo già pronto e consapevole.
A volte l'architettura compositiva suggerisce vuoti che in realtà si rivelano pienissimi, come nella sinfonia di bianchi della Lettera, dove la bambina più che seduta sul divano appare inscritta nella forma sinuosa della sua bordatura in legno dorato, ieratica santa di fissità bizantina che forse tra poco scomparirà al nostro sguardo, proprio come la lettera – oramai trasparente, invisibile – che scivola al suo fianco. Quel movimento immobile di caduta è un pezzo di magia in un dipinto che nella sua semplicità appare complessissimo. Basta vedere come il pennello delimita la gamba della ragazzina, con il piede definito fino all'ultimo dettaglio e il polpaccio che invece è soltanto tratto leggero di bianco, quasi vergato a gesso. Solo a un ulteriore sguardo si percepisce, celato sotto il vestito, uno spigolo di carta celeste. E allora viene il dubbio che la lettera sia lì: nascosta come il più inviolabile dei segreti. Ed è pienissimo – saturo addirittura – lo spazio vuoto del dipinto Avevo una sedia. E' uno di quelli per i quali Gasparini si è divertita a proseguire la narrazione aggiungendo un pezzo della storia dietro la tela intelaiata. Quando lo fa, dipinge questi frammenti di racconto grossolanamente, volutamente abbozzati – a volte con la mano sinistra, bendandosi un occhio – e pure densi di dettagli. E' lo spazio della libertà, lo sberleffo alla limitatezza dei confini della tela. Qui, alle spalle del dipinto, una ragazzina nuda appare rannicchiata su una seduta che si intuisce in ferro battuto, meditabonda su come usare il grande barattolo di pittura rossa che tiene accanto a sé. Lì vicino la scritta: "Quando il rosso chiama è meglio assecondarlo. Il rosso è vendicativo". La ragazzina non se lo è fatto dire due volte: il dipinto è un mare di rosso, un rosso dilagante che ingoia ogni cosa e da cui emerge, come un curioso accessorio da passeggio, solo lo schienale della sedia originale, ridotto ora a un intrico di foglie che potrebbe davvero essere materia vegetale. E poi ecco il viso, l'unica zona del dipinto realizzata a olio sulla vellutata opacità dell'acrilico, un viso delicato e luminosissimo il cui sguardo azzurro si incatena al nostro. Anche in questo caso la completa percezione del lavoro è un'operazione lenta che potrebbe richiedere ore, e resta comunque il dubbio di essersi persi qualcosa. Perché solo in un secondo momento si coglie la consistenza rigida dell'abito (un esplicito omaggio a Domenico Gnoli) e si percepisce la sproporzione dei piedi: enormi, luciferini, capaci di trasformare di colpo quella bambina in un elfo, in una creatura fatata, mentre tutto quel rosso batte in testa e scatena echi fiamminghi: Jan Van Eyck e i manti scarlatti delle sue Madonne.
La storia potrebbe continuare, con neonati dalle gambe adolescenti che danzano al suono di un walkman (Céleste qui danse) e con bambini che sgorgano come materia vegetale da vasi pieni di terriccio, brandendo un pastorale da vescovo (Santa Monstera Deliziosa); e certamente continua nelle carte, quelle che Gasparini chiama "quadrisegni" perché vi mescola il disegno e la pittura fingendo che siano pagine strappate da enormi taccuini con i buchi e inventandosi un tratto infantile. Lì va in scena un mondo bambino, dove la maestra che ci terrorizza all'asilo finalmente scivola su una buccia di banana e dove il ritratto della mamma diventa alter ego, gemella, identica anche nell'abbigliamento. Perché se c'è una cosa che Gasparini ha saputo mantenere dell'infanzia è la potenza dello stupore. La capacità di incantarsi davanti alla meravigliosa incomprensibilità del reale. Ed è questo, alla fine, che ci racconta. Pennellata dopo pennellata. Catturandoci nei suoi labirinti.
Mostra: Alessandra Gasparini. Il rosso è vendicativo
Genova - galleria Rossetti Arte Contemporanea
Apertura: 03/10/2024
Conclusione: 03/11/2024
Organizzazione: galleria Rossetti Arte Contemporanea
Curatore: Alessandra Redaelli
Indirizzo: Via Chiabrera 33r - 16123 Genova
Inaugurazione: giovedì 3 ottobre 2024 alle ore 18.00
Orario: martedì-venerdì 10.30-12.30 e 15.30-19.30 | sabato 11.00-19.00
Info: info: +39 010.2367619 | info@rossettiartecontemporanea.it
Sito web per approfondire: https://www.rossettiartecontemporanea.it/
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