Per il terzo appuntamento del progetto"Grand Tour – Viaggio tra le collezioni italiane", Studio Museo Felice Casorati è lieto di annunciare "The Beginning", mostra che mette in dialogo la produzione di Luisa Rabbia con le opere degli artisti Huma Bhabha, Ross Bleckner, Gianni Caravaggio, Enrico David, Mario Diacono, Jason Dodge, Scott Grodesky, Jannis Kounellis, Piero Manzoni, Claudio Parmiggiani e Beatrice Pediconi.
The Beginning, a cura di David Dixon e Archivio Casorati, realizzata dal Comune di Pavarolo e dall'Archivio Casorati in collaborazione con Collezione Maramotti (Reggio Emilia), Collezione Francesca Lavazza (Torino), Peter Blum Gallery (New York), e Galleria Giorgio Persano (Torino) aprirà al pubblico sabato 28 settembre e sarà visitabile fino al 17 novembre 2024.
La mostra ha preso forma a partire da due importanti dipinti di Luisa Rabbia, NorthEastSouthWest (2014, Collezione Maramotti) e Birth (2017, Collezione Francesca Lavazza), a partire dai quali sono state selezionate opere di artisti internazionali storici e contemporanei provenienti dalla Collezione Maramotti (Reggio Emilia), scelti con l'obiettivo di evocare e amplificare la dimensione cosmica e la riflessione sul concetto di origine, apparizione e direzione espressa nelle opere dell'artista secondo una visione multiforme, dal terrestre al celeste. Il titolo, The Beginning, rimanda in parte al territorio torinese quale luogo di origine di Luisa Rabbia che dal 2000 vive e lavora a New York.
L'esposizione si sviluppa in tre sedi, lo spazio museale dello Studio Museo Felice Casorati, un'area della Casa Casorati e uno spazio espositivo sotto la torre campanaria di Pavarolo.
Se il lavoro di Rabbia stabilisce il tono della mostra, questa disposizione insolita degli spazi espositivi ne definisce il ritmo: lo spettatore è invitato a scegliere il luogo da cui iniziare a visitare l'esposizione perché non esiste un unico inizio ma tanti inizi possibili: dal giardino, in connessione con la natura e i desideri cosmici; dalla torre campanaria, in una stanza simile a un grembo o una tomba; dallo studio di Casorati, (lo studio dell'artista), inteso come luogo di rinnovamento e scoperta. Il visitatore intraprende un viaggio fisico e concettuale tra gli spazi e i dilemmi che le opere collettivamente sollevano.
L'esposizione si inserisce nel progetto Grand Tour – Viaggio tra le collezioni italiane, ideato dallo Studio Museo Felice Casorati, che intende mettere in dialogo opere provenienti da diverse collezioni all'interno degli spazi fortemente connotati e vissuti da Felice Casorati, come il suo studio e la sua casa a Pavarolo.
Le prime due edizioni hanno visto la collaborazione con la Collezione Giuseppe Iannaccone di Milano in un confronto tra Antonietta Raphael, Cindy Sherman e Kiki Smith sul tema dell'autoritratto femminile (2022), e con un progetto di dialogo tra opere di Scipione e una serie di artisti delle generazioni successive, dedicato al tema della visionarietà, nel 2023.
In occasione della mostra, inoltre, Studio Museo Felice Casorati riattiva il progetto Emporium Project che espande le attività del museo anche fuori dai suoi spazi espositivi con alcune residenze artistiche a cura di Francesca Solero. Dopo Hilario Isola (2018), Julie Polidoro e Gosia Turzeniecka (2019), Manuele Cerutti e Francesca Ferreri (2020), anche Luisa Rabbia torna nei suoi luoghi d'origine per una residenza che si concretizza nella realizzazione delle opere esposte nella torre campanaria.... leggi il resto dell'articolo»
Luisa Rabbia (Pinerolo, 1970), ha studiato al Liceo Artistico Primo e all'Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. Nel 2000 si è trasferita a New York, dove attualmente risiede e lavora. Con il suo lavoro esplora le sfumature psico-sociali dell'umanità, dalla sfera individuale all'esperienza collettiva; intrecciando il visibile e l'invisibile, riferimenti letterari ed eventi attuali in un linguaggio espressivo e personale, le sue opere rappresentano corpi più o meno astratti che evocano temporalità, spiritualità, paesaggi interiori e interconnessione fra le forme viventi. Nonostante sia il momento contemporaneo a ispirarla, Rabbia cerca un linguaggio atemporale, che si estenda oltre il quotidiano e inviti a ponderare le complessità dell'esistenza umana.
Rappresentazioni di esseri umani, corpi che evocano paesaggi, forme cellulari e vegetali, tutto si fonde nel suo lavoro. Questo legame intrinseco tra tutte le entità viventi riflette l'interesse dell'artista per il concetto che tutte le cose sono la causa cooperante di tutto quello che esiste. All'interno di questa visione filosofica l'artista solleva riflessioni sugli eventi attuali, estendendoli e intersecandoli con il cosmico.
Il suo approccio, intuitivo ed emotivo, ha radici profonde nel disegno, ma nel corso degli anni si è esteso dalla superficie della carta a supporti come ceramica, cartapesta, video e, più recentemente, pittura ad olio su tela. Le opere esposte al Museo Studio Felice Casorati, parte della Collezione Maramotti e Collezione Francesca Lavazza, presentano due dei suoi primi interventi su tela (2014-2017), caratterizzati da una pittura eseguita, interamente con matite colorate su acrilico. Un grande quadro ad olio del 2024 sarà in mostra nella torre del campanile di Pavarolo.
Il lavoro di Luisa Rabbia è rappresentato dalla Peter Blum Gallery, New York, e dalla Galleria Giorgio Persano, Torino. Fra le numerose esposizioni personali e collettive a livello nazionale e internazionale ricordiamo quelle presso le seguenti istituzioni: Westmont Ridley-Tree Museum of Art, Santa Barbara, CA (2022); Museo Michetti, Francavilla al Mare (2022); Collezione Maramotti, Reggio Emilia (2021, 2016); La Reggia di Venaria Reale, Venaria (2021); Magazzino Italian Art Foundation, Cold Spring, NY (2020); Manifesta 12, Palazzo Drago, Palermo (2018); Palazzo delle Esposizioni, Roma (2018; 2008); Isabella Stewart Gardner Museum, Boston (2019, 2014, 2008); Lismore Castle Arts, Lismore, Ireland (2016); Fondazione Merz, Torino (2015, 2009); Biennale del Disegno, Museo della Città, Rimini (2016); Shirley Fiterman Art Center, New York City (2015); Maison Particulière, Brussels (2014); Carpenter Center for the Visual Arts, Harvard University, Cambridge (2013); Museo del Novecento, Milano (2012); Fundación PROA, Buenos Aires (2010); Fondazione Querini Stampalia, Venezia (2009); MAXXI, Roma (2007); Shanghai Museum of Contemporary Art, Shanghai (2006); Certosa di S.Lorenzo, Padula (2006); Gallery of Modern and Contemporary Art, San Gimignano (2005); Palazzo Cavour, Torino (2005); Arte All'Arte IX, S.Gimignano (2004); Palazzo Bricherasio, Torino (2003). Luisa Rabbia è stata Visiting Professor in Drawing all'Università di Harvard, Cambridge, nell'anno accademico 2013/14. Fra i premi ha ricevuto il Pollock-Krasner Foundation Grant nel 2022 e il NYSCA/NYFA Artist Fellowship in Painting nel 2018.
Gli artisti
Piero Manzoni
Artista autodidatta, colto e attivissimo, Piero Manzoni (Soncino, 1933 - Milano, 1963) è oggi considerato una figura chiave nel panorama artistico europeo del dopoguerra.
Dalla metà degli anni Cinquanta realizza i primi Achrome, i cui materiali base sono gesso e colla e in cui il colore non esiste se non in quanto riferimento visivo della materia. Tali superfici sono successivamente realizzate con elementi quadrati di tela incollati
ordinatamente e ricoperti di gesso e caolino. Negli anni seguenti gli Achrome si aprono all'utilizzo di molteplici materiali: palline di ovatta, batuffoli di cotone, fibre artificiali,
peluche, pani plastificati, palline di polistirolo, tutto rigorosamente ricoperto del suo "non colore". Oltre a portare avanti la ricerca sugli Achrome, Manzoni comincia a realizzare opere oggettuali e happening. Il tentativo di uscire dai limiti della superficie porta l'artista a sviluppare, tra il 1959 e il 1960, le Linee, strisce di carta di lunghezza ben determinata, che irridono al disegno e che l'artista confeziona in appositi cilindri etichettati e firmati. Con la Linea di lunghezza infinita l'operazione giunge alle conseguenze estreme: idealmente collocata in una scatola, come le altre linee, essa in realtà non esiste, è un puto elemento concettuale. Degli stessi anni sono le sculture "pneumatiche" con il Fiato d'artista, un modo per alludere derisoriamente al culto del genio e della sua specifica identità.
Nel 1960 propone, alla galleria Azimuth, la performance Consumazione dell'arte attraverso la sua divorazione, mediante la quale ad essere consumate sono Uova sode, marcate con la sua impronta digitale. Le opere del 1960 si caricano di componenti paradossali neo-dada, vendute a prezzi vertiginosi sul mercato dell'arte, del quale l'artista si prende gioco. Del 1961 sono le Sculture viventi, con cui inizia a firmare il pubblico alle mostre, rilasciando un certificato di autenticità, irridendo alla supremazia della tecnica sull'ideazione artistica, e le novanta lattine di Merda d'artista, il modo più eclatante per deridere sia il gusto romantico della personalità artistica sia la speculazione commerciale che su di esso si fonda: lo scandalo di Manzoni diviene quindi scandalo dell'intera arte contemporanea. Le successive Tavole d'accertamento, che pubblica per l'editore Scheiwiller, rifiutano ogni idea di "creazione" e si propongono solo come tautologie del reale.
Nel 1962, infine, Manzoni costruisce una base del mondo rovesciata, Le socle du monde che, nel suo immaginario, avrebbe dovuto reggere la terra: tutto il mondo diviene opera d'arte e l'arte non è altro che una ripetizione del mondo. Il compito che ancora compete all'opera di Piero Manzoni è, quindi, quello di scavare nella mitologia collettiva e negli archetipi che guidano da sempre l'esistenza degli uomini.
Huma Bhabha
Artista originaria del Pakistan, negli anni Ottanta Huma Bhabha (Karachi, Pakistan, 1962) si trasferisce negli Stati Uniti per studiare alla Rhode Island School of Design e in seguito alla Columbia University, dove ottiene il Master in Fine Arts nel 1989. Inizialmente si dedica alla pittura e alle tecniche di stampa, ma è con gli assemblaggi tridimensionali che trova la sua migliore espressione artistica. I lavori di Huma Bhabha sono caratterizzati dall'ibridazione: la scultura classica e africana, i Neo-espressionisti tedeschi, Picasso, Giacometti e le distopie fantascientifiche di Philip K. Dick sono le principali suggestioni individuabili nelle sue opere, realizzate con oggetti trovati, come polistirolo, reti metalliche, legno e ferro arrugginito.
L'utilizzo di materiali scartati è per l'artista "qualcosa che va indietro e si collega col fatto di non avere soldi e non avere tanto spazio a disposizione. Ho sempre lavorato con materiali leggeri: molto tessuto, o polistirolo. Ed è più economico trovare i materiali. Per le sculture è una sfida ma è comunque una sorta di lavoro. E se mi serve prendere qualcosa - come in un negozio - lo prenderò" (Huma Bhabha). La prima personale di Huma Bhaba si è tenuta nel 1993 a Los Angeles, ma l'interesse della critica internazionale è arrivato molti anni dopo, fino alla vittoria, nel 2008, del premio per artisti emergenti dell'Aldrich Contemporary Art Museum. Le figure solitarie di Huma Bhabha, relitti che sembrano provenire da uno scenario post-atomico, spingono ad una riflessione sul senso dell'esistenza e sulla condizione dell'uomo contemporaneo. I coaguli di materiali di scarto dell'artista sono stati spesso interpretati in chiave politica, sia per la sua origine pakistana sia per alcune opere che evocano un determinato contesto sociale, come una figura prostrata in ginocchio, avvolta in una sorta di burka fatto con un sacco della spazzatura. Ma Huma Bhabha si considera principalmente un'artista intuitiva: "Non lavoro in modo tematico. Una scultura mi conduce all'altra. Le persone vedono un elemento politico. Non è mia intenzione. Non è qualcosa di didattico e specifico. La gente vede più di ciò che io avevo in mente in origine". Nel 2012 è stata presentata la sua mostra personale, Players, presso la Collezione Maramotti (dove due suoi lavori dei primi anni Duemila sono esposti in permanenza) e nel 2018 ha realizzato l'installazione site-specific per il Roof Garden del Metropolitan Museum.
Gianni Caravaggio
Gianni Caravaggio (Rocca San Giovanni, 1968) frequenta l'Accademia di Belle Arti di Milano e segue i corsi di Luciano Fabro. Tra il 1989 e il 1996 studia Filosofia all'Università di Firenze, Milano e Stoccarda, mentre nel 1999 partecipa al Workshop di Haim Steinbach presso il Corso di Arte Visiva della Fondazione Ratti a Como. È tra i fondatori del gruppo artistico "Microbo Erotico" e numerosi sono i premi a lui riconosciuti: nel 2002 riceve il Premio Fondo Speciale PS1 Italian Studio Program, nel 2005 il premio Castello di Rivoli e il premio Alinovi e nel 2013 il premio ACACIA.
La ricerca di Gianni Caravaggio si snoda in un percorso che esplora le potenzialità dinamiche della scultura, creando un panorama di forme la cui conoscenza passa attraverso un processo di osservazione che ne impedisce il riconoscimento, venendo a mancare qualsiasi appiglio a categorie precostituite. Le sue opere, costruite sull'osservazione di fenomeni scientifici, esprimono una spiccata componente concettuale proponendosi come illuminanti riflessioni sulla realtà contemporanea esplorata negli aspetti più complessi e profondi. Nella sua più recente ricerca artistica, mediante l'utilizzo non solo di marmo, alluminio e vaselina, ma anche di cioccolato, crema e lenticchie, l'artista realizza opere che sono ispirate all'universo e alle teorie che descrivono la sua genesi. La forma, mai definitiva, si costituisce attraverso lo sviluppo di un elemento generativo primigenio (un seme, un granello di sale oppure una zolletta di zucchero) definendo così uno spazio aperto, mobile, attivo, nel quale ogni particella si estende, cresce, si contrae e si trasmuta nello stesso istante, per creare infine un corpo metamorfico tangibile.
Materie al cui interno si addensano stati di trasformazione progressiva, micro evoluzioni, impercettibili spostamenti che generano cambiamenti di stato restituendo la consapevolezza di abitare un universo fluido, in continuo mutamento.
Gianni Caravaggio ha presentato la mostra Scenario nel 2009 e ha partecipato all'esposizione collettiva Arte Essenziale nel 2011, entrambe alla Collezione Maramotti.
Claudio Parmiggiani
Claudio Parmiggiani (Luzzara, 1943) è un artista di spicco internazionale con un silenzioso repertorio di opere denso di poetici misteri, di citazioni letterarie e filosofiche e di manipolazioni alchemiche. Dal suo esordio a Bologna, nel 1965, il percorso di Parmiggiani è scandito da opere di malinconica riflessività, di un'idea del mondo come memoria di ombra e luce, di terra e cenere, di natura spiritualizzata. Nel 1968 realizza Luce luce luce, pigmento di polvere gialla abbacinante sul pavimento. Drammatizzante, al contrario, è il primo Labirinto di vetri rotti (1970).
E poi pigmenti, polveri, ceneri di legni, installazioni di fuoco e fumo si propongono alternati a sprazzi di oro e strutture di luce. Fra le innumerevoli sue presenze in mostre europee e internazionali, si ricordano in particola le sue opere alla Biennale di Venezia del 1982, del 1984, del 1986 e del 1995.
Le Delocazioni sono lavori che Claudio Parmiggiani realizza dal 1970. La prima, alla Galleria Civica di Modena, nasceva dall'osservazione di uno spazio dove le uniche presenze erano gli oggetti che l'autore aveva rimosso (de-locato) dalle pareti: un quadro, una scala. Operazioni quasi alchemiche dove l'ombra di un oggetto è ottenuta attraverso il fuoco, il fumo, la fuliggine. In altri lavori, l'oggetto è trasformato in luce che determina una tensione etico-estetica quasi palpabile, poiché ogni opera è una infinita fonte di significati che valicano la sfera puramente simbolica per divenire morfologia di un pensiero resistente. La costruzione di ogni forma richiama l'artista a una gravità oggettiva che distingue le proprie immagini da quelle dequalificate di significato scaricate dalle innumerevoli fonti produttive dell'inquinamento mediatico. Presso la sezione permanente della Collezione Maramotti sono presenti una sala interamente dedicata al suo lavoro e la sua grande opera sospesa Caspar David Friedrich.
Ross Bleckner
Ross Bleckner (New York, 1949) unisce nella sua opera un'astrazione tendente all'inganno visivo a segni riconoscibili, ma fortemente elusivi, col fine di suscitare una meditazione sulla percezione, sulla trascendenza e sulla perdita. Se nei primi anni Ottanta Bleckner dona nuova vita alla Optical Art, con le sue opere a righe verticali, che racchiudono un senso di mortalità e insieme di disciplina, dalla metà dello stesso decennio compaiono, nei suoi lavori, forme luminose su campi di colore scuri e vuoti: urne, fiori, stelle, dettagli architettonici, uccelli, cellule umane.
Elementi effimeri melanconici che diventano parte fondante del suo lessico, trasformando un vecchio e funereo immaginario in meditazioni nostalgiche sulla memoria e sulla perdita. Sono opere "memoriali", che diventano passaggi per l'oltre, in corrispondenza con il forte pedaggio che negli anni Ottanta l'AIDS chiede alla società. Ritornano le "gabbie" di linee verticali a chiudere piccole sagome di uccelli, a cui si affiancano elementi architettonici celesti, con riferimenti alle lesioni dei corpi martoriati dall'AIDS, come in Architecture of The Sky (1988), e il ciclo Dome. Dai primi anni Novanta Bleckner passa a motivi decorativi biomorfi a suggerire una melanconia urgente, come nel ciclo delle Examined Life. L'urgenza diviene poi mortalità, evidenziata da cellule, corpuscoli e creature protozoiche, "strutture molecolari che giacciono sotto la pelle delle immagini":
Bleckner passa dall'ambiguità a una serie esplicita di cellule malate e cancerose, meditazioni sulla mortalità. La serie Flowers del 1995, emblema della fragilità della vita umana, culmina nel dipinto Family Plot, esposto alla Collezione Maramotti. Le sue opere diventano, in seguito, più luminose, senza abbandonare tuttavia il tema e l'idea della morte. Gran parte del suo lavoro può essere letto come un epitaffio: immagini di antiche urne funerarie, superfici smaltate e butterate somiglianti a carni cancerose, titoli che esprimono il senso della fine e della morte per AIDS - tutto ciò di cui normalmente non si vuole parlare. Presso la sezione permanente della Collezione Maramotti è presente una sala dedicata al suo lavoro.
Scott Grodesky
Scott Grodesky (Warren, Ohio, 1968) frequenta il Cleveland Institute of Art per due anni prima di abbandonare gli studi e trasferirsi a New Y ork nel 1989, dove lavora come assistente dell'artista Joseph Glasco. Negli anni Novanta espone alla Biennale di Venezia e ad Art and Public a Ginevra. Negli anni Duemila espone presso le gallerie LFL e Zach Feuer di New York e la Daniel Weinberg Gallery di Los Angeles. Nel 2019 ha partecipato alla mostra collettiva "Human/Nature" presso Tiger strikes Asteroid e nel 2020 ha tenuto una mostra personale, "Subway Spectator", presso la George Gallery a Bushwick (New York). I suoi dipinti, strutturati e labili al tempo stesso, incarnano una combinazione di attenta trama e di esecuzione approssimativa. La goffaggine dell'opera è dovuta al fatto che l'artista costruisce i suoi soggetti all'interno di una matrice meglio descritta come prospettiva inversa: le normali convenzioni di scala e distanza sono invertite, così gli elementi della scena più vicini al piano dell'immagine sono più piccoli di quelli lontani, che incombono stranamente nello strato più profondo dell'immagine. Un altro elemento distintivo dell'artista riguarda la sua scelta di non ridipingere nulla.
Dopo aver tracciato l'immagine con linee nervose a matita, aggiunge il colore in membrane acquose di pittura acrilica, lasciando la trama della tela completamente visibile e dando alle tinte la qualità di tinte traslucide. I soggetti che Grodesky dipinge riguardano cose che lui conosce bene come la sua famiglia, il suo appartamento, la sua città. Interessante è la rappresentazione delle persone care incorniciate nella sua prospettiva inversa; questi soggetti subiscono alterazioni, presentando corpi allungati e proporzioni inverosimili. I bambini diventano giganti, le relazioni di amorevole parità sono sbilanciate e assumono connotazioni di dominio o di culto. Dal 7 ottobre 2012 - 3 febbraio 2013 ha esposto la sua opera Untitled (1991) nella mostra collettiva La pittura come forma radicale (Painting as a Radical Form) presso la Collezione Maramotti.
Beatrice Pediconi
Beatrice Pediconi (Roma, 1972) è un'artista visiva di origine italiana con sede a New Y ork. Nel 1995 Pediconi ottiene una borsa di studio Erasmus per la Scuola Nazionale di Architettura-La Villette di Parigi, dove studia pittura e storia dell'arte. Nel 1999 consegue la laurea in Arte e Architettura presso l'Università La Sapienza di Roma. A partire dal 1999 oltre a specializzarsi nella fotografia di architettura si dedica alla fotografia di ricerca. La sua poetica indaga la natura fragile, precaria e transitoria dell'esistenza, dando origine a immagini sottili e fluttuanti attraverso un processo casuale di trasformazione della materia.
Le opere dell'artista sono il risultato di tecniche diverse (pittura, disegno, video e fotografia) applicate in sequenza in modi non convenzionali e spesso coinvolgendo l'acqua come agente del caos. I temi principali affrontati nelle opere sono le transizioni tra immobilità e movimento, creazione e distruzione, permanenza e transitorietà, passato e presente, incarnati da un flusso continuo di immagini effimere. Esse riflettono la nostra condizione di vulnerabilità ed esplorano la nostra inevitabile spinta verso il rinnovamento e la rigenerazione.
Dal ciclo Corpi Sottili, scritture realizzate con inchiostri nel 2006, alla serie blu degli Untitled (2009), in cui l'artista impiega polveri e gesso, fino alle sperimentazioni con materiali organici di Red nel 2011, il percorso di incontro con l'acqua è fertile e in continua crescita nei lavori dell'artista. Un percorso che vuole coniugare l'osservazione scientifica dei comportamenti dei materiali e la capacità di riprodurli con la libertà creativa in cui l'immagine viene spostata su un piano percettivo differente da quello a cui ci ha abituato la pittura tradizionale. Nel 2019 ha presentato la mostra personale 9' / Unlimited presso la Collezione Maramotti.
Enrico David
Enrico David (Ancona, 1966) vive e lavora a Londra. Ha studiato al Central St. Martins College di Londra e nel 2009 è stato finalista del Turner Prize.
Lavora con la pittura, la scultura e l'installazione, impiegando talvolta tecniche artigianali tradizionali. Il disegno è un elemento di primaria importanza, punto di partenza per la creazione di opere e come opera in sé. La stessa varietà dei media utilizzati può essere ritrovata anche nei soggetti dei suoi lavori che derivano da molteplici fonti ed esprimono un'ampia gamma di complessi stati emozionali.
L'immaginario di David attinge all'artigianato, all'arte popolare e al design del XIX secolo, così come alla pubblicità, alla moda e alla storia dell'arte (dal surrealismo all'espressionismo, dall'art déco alla tradizione figurale giapponese). Le ragioni le spiega lo stesso artista: "Il mio lavoro non ha mai seguito una traiettoria metodologica uniforme, perché io penso che siamo tutti un po' sempre in lotta, cercando di venire a patti con la nostra natura frammentata, contraddittoria. Ma trovo che l'incontro tra queste diverse materie, tra queste diverse forme di espressione, sia una sorta di traduzione di quella discontinuità". Nelle opere di Enrico David l'impermanenza dell'immagine è uno stato di passaggio tra scomparsa e ri-apparizione della forma. La corporeità è sempre presente nel suo lavoro, anche quando appare negata nella sua finitezza formale. Le figure collassano, si trasformano o si moltiplicano, sono paradigmi di caduta e rinascita. La sua ricerca è improntata ad una riflessione costante sulla frammentarietà, ad una lotta tra tensioni divergenti. La trasformazione nel disordine, generata da una gamma di stati psichici e fisici, è una condizione che l'artista sente ed esperisce con urgenza espressiva. Lo stesso David descrive i suoi lavori "sull'orlo di non essere pronti a nascere" e li definisce, nel processo, "dispersioni erranti del fluire inconscio". Il progetto Enrico "La Caduta" David è stato presentato nel 2015 presso la Collezione Maramotti.
Jason Dodge
Jason Dodge (Newton, 1969) è un artista statunitense. Vive e lavora a Møn in Danimarca. Nel 1992 ha ottenuto un BFA presso il Maryland Institute College of Art di Baltimore e nel 1996 si è specializzato alla Y ale University School of Art di New Haven.
Caratterizzata da un'apparente semplicità, l'arte di Jason Dodge si sviluppa invece da un complesso processo artistico, attraverso il quale l'autore cerca di trasmettere il significato e la poesia che gli oggetti, anche quelli più semplici e banali, possiedono. Le sue opere, infatti, sono spesso realizzate con oggetti comuni, prelevati dalla vita quotidiana, come coperte, lampadine, fili elettrici, corde, guanti: "Molte opere sono composte interamente da oggetti quotidiani e il disporle in una situazione o in un contesto non familiare permette di guardare in profondità il mondo e il modo in cui viviamo e questo svela l'umanità degli oggetti che usiamo" (Jason Dodge, 2013).
La sua arte evocativa ha molti elementi di contatto con la poesia: "Non c'è una connessione specifica tra la poesia e il mio modo di fare arte, ma circa dieci anni fa mi sono accorto che persone della mia età, coetanei che erano poeti, [come per esempio, Matthew Dickman e Dan Chiasson] lavoravano con metodi, pensieri e idee in cui mi identificavo molto più di quanto non facessi con artisti visivi" (Jason Dodge, 2013).
La poeticità del lavoro di Dodge si deve all'unione di due aspetti: uno visibile e uno invisibile. L'opera Signal bell, lights mark where a bell is sealed inside a wall, per esempio, è composta da una lampada che proietta la sua luce su un punto di una parete, in cui è stata nascosta una campanella. La parte non visibile del lavoro rappresenta, simbolicamente, la storia degli individui che hanno avuto a che fare con quel determinato oggetto o edificio, in cui spesso l'artista interviene con minimi dettagli, spesso non riconoscibili a un primo sguardo, ma che l'autore rivela nel titolo, che indica il modo in cui l'opera deve essere guardata evocando immagini, sensazioni, emozioni, esperienze.
Ha partecipato nel 2011 all'esposizione collettiva Arte Essenziale presso la Collezione Maramotti, per cui ha anche concepito la sua installazione permanente A permanently open window. Nel 2019 la Collezione ha dedicato una sezione della mostra temporanea Rehang: Archives alla ricerca di Jason Dodge.
Jannis Kounellis
Jannis Kounellis (Pireo, 1936 - Roma, 2017) si trasferisce dalla Grecia a Roma nel 1956 dove si unisce all'esperienza della Scuola di Piazza del Popolo e aderisce alla Pop Art italiana, per poi successivamente diventare uno dei massimi esponenti dell'Arte Povera italiana. La pittura, la scultura, le ambientazioni, le installazioni e le performance, con la loro materialità poverista, modificano da un lato il concetto di rappresentazione legata alla bidimensionalità della tela e dall'altro lato danno corso a un nuovo processo di fruizione in grado di coinvolgere totalmente lo spettatore integrandolo all'interno dell'opera. La sua più grande aspirazione diviene quella di "diventare un ago per cucire tutto insieme, ricucire tutto di nuovo".
Kounellis è un artista apparentemente isolato nel panorama contemporaneo: remoto
sognatore, "pochi artisti sanno, come lui, dare valore di immagine al dinamismo che è nel cuore stesso della materia: dare il sentimento tangibile della tensione, del peso, della
proporzione, del rapporto tra le forme come ritmo e come numero, della sensibilità della
superficie, della trasparenza, del confine tra il vuoto e la piena concretezza delle cose".
Dalle sue opere emerge una forte drammaticità, un confronto tra gli oggetti che diviene
immediato e radicale. Si coglie il valore evocativo dell'automatismo gestuale, legato alla
liberazione degli impulsi interiori: l'opera rimane "aperta", non legata al valore del prodotto finito, ma al flusso continuo dell'ispirazione e alla dimensione processuale. L'arte di Kounellis non rappresenta, ma è, l'artista non imita, crea.
Prevale, quindi, sin dalla sua prima esposizione alla Galleria "La Tartaruga" (1960),
un'urgenza comunicativa, affiancata al rifiuto di prospettive individualistiche, estetizzanti e all'esaltazione del valore pubblico, collettivo del linguaggio artistico.
Jannis Kounellis funge da ponte tra la Pop Art italiana e l'Arte Povera dimostrando,con le sue opere, una grande sensibilità nell'interpretazione della cultura a lui contemporanea e dei relativi cambiamenti. Questa sua caratteristica si evince anche dalle opere esposte nella collezione permanente della Collezione Maramotti, realizzate tra gli anni '60 e '80.
Mario Diacono
Mario Diacono (Roma, 1930) vive e lavora a Boston. Figura di riferimento del panorama culturale italiano, si laurea nel 1955 all'Università di Roma, presentando una tesi sulle riviste. La Voce e Lacerba, con Giuseppe Ungaretti, con il quale stringe uno stretto rapporto, diventando suo segretario nel 1960. Negli anni Sessanta Diacono vive un momento di sperimentazione linguistica e letteraria, dalla quale nascono collaborazioni e riviste come Quaderno, con Stelio Martini, EX, con Emilio Villa, Continuum con Luciano Caruso, con Ugo Carrega. Nello stesso periodo, a Roma frequenta le gallerie d'arte La Tartaruga e La Salita, entrando in contatto con alcuni artisti della scuola romana come Cy Twombly e Jannis Kounellis - figure complici della creazione di un clima di sperimentazione internazionale. Nel 1968 si trasferisce negli Stati Uniti per insegnare Letteratura Italiana all'Università di California, Berkeley. Nel 1970 Diacono ritorna in Italia, ma nel 1972 si trasferisce a New York, per insegnare al Sarah Lawrence College. Nel 1976 è di nuovo in Italia, e apre nel 1978 a Bologna una galleria che emigrerà poi in diverse città: Roma nel 1980, Boston nel 1985, New Y ork nel 1993, di nuovo Boston nel 1994. Contemporaneamente pubblica con Claudio Parmiggiani la rivista Tau/Ma, con il supporto di Achille Maramotti.
I testi da lui scritti per le mostre presentate nella sua galleria sono raccolti in Verso una nuova iconografia (1984), Iconography and Archetypes (2010), Archetypes and Historicity (2012). Nel 1975 ha pubblicato la prima monografia dedicata a Vito Acconci, Dal testo-azione al corpo come testo. Numerosa e variegata è la sua produzione culturale: a partire dal 2008 ha scritto numerosi testi inclusi nelle pubblicazioni della Collezione Maramotti. Recentemente ha pubblicato Objtexts (2020), The Occulta Poesia (2021), Anarch&types (2023), Iconoscritture tantriche (2024).
Figura trasversale rispetto al panorama artistico internazionale, Mario Diacono ha proseguito l'attività di gallerista, critico, scrittore e poeta, evolvendo in una ricerca artistica che fa della parola scritta il suo fondamento. Nel 2021 il MACRO di Roma ha presentato a cura di Luca Lo Pinto la mostra Diaconia, che ha visto esposta la vasta produzione di Diacono, dai libri alle riviste e agli objtexts, passando per gli ephemera, il tutto incentrato sull'aspetto verbo-visuale a cui è da sempre estremamente legato.
Luisa Rabbia. The beginning
Pavarolo - Studio Museo Felice Casorati e altre due sedi
Apertura: 29/09/2024
Conclusione: 17/11/2024
Organizzazione: Comune di Pavarolo e Archivio Casorati
Curatore: David Dixon e Archivio Casorati
Indirizzo: Via del Rubino, 9 - 10020 Pavarolo (TO)
Opening: sabato 28 settembre, ore 16.30
Orario: sabato e domenica 15.00-18.00
Info e prenotazioni: museocasoratipavarolo@gmail.com | turismo@comune.pavarolo.to.it
Sedi della mostra: Studio Museo Felice Casorati | Via del Rubino 9, Pavarolo (To) - Casa Casorati | via Maestra 31, Pavarolo (To) - Torre campanaria | via Maestra 2, Pavarolo (To)
Sito web per approfondire: https://www.pavarolo.casorati.net/