Noemi Priolo

Abbiamo incontrato la giovane artista italiana in occasione della sua mostra personale allestita nel Bunker di Villa Caldogno, in provincia di Vicenza, dal titolo "Io sono il primo e l'ultimo e il vivente". L'esposizione è visitabile ancora per questa settimana, con finissage in programma sabato 5 novembre alle ore 16:00.

Con questa mostra Noemi Priolo ci pone di fronte a un quesito quanto mai destabilizzate: "Se fosse l’ideale stesso di umanità sbagliato? Magari abbiamo frainteso. Se quello che crediamo di essere, che ci sforziamo di essere, sia irrealizzabile proprio perché diverso da noi?".

Abbiamo voluto conoscerla meglio ponendole alcune domande che ci auguriamo possano aiutare chi ha già avuto modo di vedere il progetto espositivo di Villa Caldogno, curato da Petra Cason Olivares e NUMA contemporary, o chi lo visiterà negli ultimi giorni di apertura, di approcciarsi in modo più consapevole alla sua arte.

Partiamo con alcune domande sulla tua formazione, per conoscerti un po’ meglio: cosa ti ha fatto innamorare dell’arte e intraprendere questo percorso.

Questa è una domanda a cui vengo sottoposta spesso, ma che puntualmente mi trovo a rigettare in qualche modo. Io non vivo l’arte come una scelta di vita a cui associare un evento catalizzante. E’ un’esigenza, di comunicare, di indagare, di studiare ciò che mi circonda e me stessa. La vena creativa fa parte di me da sempre, non ho memoria di una me dissociata da questo linguaggio espressivo. Fin da bambina il mio gioco preferito era inventare storie e personaggi fantastici attraverso cui esprimere le mie emozioni, questo continuo a farlo anche oggi.

Ciò che ho fatto attraverso la mia formazione e’ stato imparare a veicolare e assecondare questa esigenza, quasi fisiologica, a cui presto si è affiancata la scultura. L’approccio fisico, la sfida con la materia, con il peso è infatti qualcosa che ho scoperto al Liceo e che ho approfondito all’Accademia di Belle Arti di Palermo.

Sei partita dalla Sicilia, dove hai studiato all’Accademia di Belle Arti di Palermo, per arrivare a Londra, città cosmopolita e centrale nella produzione artistica contemporanea. Che influenza pensi possano avere le proprie radici, in generale e nel tuo caso specifico, nel percorso di un’artista oggi, che vive e opera in un contesto assolutamente globalizzato.

Penso non esista uomo su questa terra in grado di dissociarsi completamente da quelle che sono le sue radici, la sua storia, anche quella che non conosce ma comunque scritta nel suo patrimonio genetico e che inconsciamente riversa nel suo modo di vivere. Poi è chiaro che ognuno di noi ha un rapporto più o meno consapevole con tali radici, chi le sfrutta a suo vantaggio in quanto risorsa e chi invece prova a sotterrarle.
Personalmente vivo le mie radici come una dote, un'eredità culturale che porto con me in modo conscio e con un pizzico di orgoglio. Seguendo la metafora nuziale, la dote è un punto di partenza, a cui poi si aggiunge altro. Io ho arricchito la mia persona con la cultura inglese, che ha stemperato il mio temperamento irruento e mi ha rapita con il british humor, che ho pian piano fatto mio. Artisticamente questo ha un grande peso, i colori e le parole ad esempio sono apparsi al contatto con questo nuovo mondo, quasi immediatamente. La serie Apologize ne è la testimonianza più ovvia, ho cominciato a lavorarci nel 2016, stesso anno in cui mi sono trasferita.

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Noemi Priolo, Apologize


Nella mostra attualmente allestita nel Bunker di Villa Caldogno, “io sono il primo e l’ultimo e il vivente”, si riconoscono diversi riferimenti iconografici religiosi. Quanto ha contato nella tua formazione e quanto conta nel tuo presente la dimensione religiosa.

Le religioni mi affascinano, mi piace leggerne i testi, scoprirne i luoghi, pur non abbracciandone alcuna. Amo sentirne la spiritualita’ di ognuna. Al contempo mi intimoriscono, hanno un potere agglomerativo così potente che, come ben sappiamo, sfugge da qualsiasi dinamica di controllo ipotetico.
Mi interessano e le studio in quanto fenomeno umano, uno dei più controversi in assoluto.
La preghiera, la supplica, il perdono, la liberazione, la colpa. Tutti concetti che fermentano in me, da cui però cerco emancipazione.

Se dovessi rintracciare una motivazione a questo rapporto indicherei due motivazioni, una che si riallaccia inevitabilmente alla domanda precedente, sulle mie radici. Io sono cresciuta in una dimensione familiare e culturale fortemente religiosa.

Palermo è una delle città italiane che vanta il maggior numero di chiese, in ogni strada ne incontri almeno un paio e con molta probabilità sono completamente diverse tra loro, per epoca, stile ed intenti. Il mio immaginario è dunque fortemente intriso da quelle forme, così come da particolari suggestioni.

Noemi Priolo, Have Me

Noemi Priolo, Have Me

La seconda motivazione è più articolata, si allaccia alla mia ricerca di verità, di risposte, di univocità. Tuttavia mi sono ben presto accorta nel mio percorso personale, che la verità non esiste, quantomeno non ne esiste una soltanto, ma tante.
I dogmi, propri di delle religioni monoteiste, non ammettono tale filosofia, al contempo, dal mio punto di vista, sono intessute di incoerenze.
Questo è evidente nella mia produzione, ogni opera, ogni ragionamento contiene in sé molteplici verità, duplici approcci, tutti validi. E’ la base del processo di ibridazione a cui sottopongo ogni mio lavoro.

Parlando dell’arte del ‘900, quali sono stati i tuoi riferimenti, e quali sono, se ne hai, nel contesto contemporaneo.

Non ho dei riferimenti, credo di non averne mai avuti, amori si. Sono stata innamorata di Louise Bourgeois, di Anthony Gormley, di Giacometti, di Rebecca Horn, Jenny Holzer, Rauschenberg, Marlene Dumas, Annette Messager, Jasper Jones. Mi sono appassionata al surrealismo, al new dada, ma anche all’arte povera.

Come hanno influito nella tua ricerca artistica, se lo hanno fatto, gli accadimenti degli ultimi anni, dalla pandemia alla guerra in Ucraina.

L'attualità influisce abbondantemente nella mia ricerca, tendo ad interiorizzare molto le tensioni che mi circondano e a riversarle nella mia produzione. Ciò che mi interessa è dare forma al risvolto emotivo che questi eventi innescano, in me e nelle altre persone, creando una sorta di ponte empatico.
La crisi pandemica in particolare ha dato vita a una serie di sculture intitolata “Never Forever” il cui elemento di base è una coppia di pappagallini inseparabili.
Ho affrontato il tema dell’omofobia con la serie Amor Mundi, e la tragicomica situazione politica italiana con 965. La guerra, la vedo come una costante purtroppo onnipresente, e’ tema centrale dell’attuale mostra al Bunker ma che tuttavia è stata progettata nel 2019, non e’ quindi stata la guerra in Ucraina a innescare questo pensiero.

Cosa ti spaventa di più, oggi.

La routine. Una routine stabilita da un sistema prestabilito che decreta inevitabilmente l'appartenenza o meno a questa società, nonché alla sopravvivenza.
Poca libertà, pochissima spontaneità, zero improvvisazione.

Torniamo alla mostra di Villa Caldogno. Alle persone con cui parlo, che si approcciano con difficoltà all’arte contemporanea perché non la capiscono, dico che il loro errore sta proprio nell’usare la “comprensione” razionale come primo strumento di contatto, e suggerisco loro invece di interagire con l’opera con un atteggiamento più istintivo e di ascolto interiore. Iniziando il percorso espositivo della mostra, non ho potuto fare a meno di pensare che diverse persone avrebbero potuto provare un senso di disagio nel trovarsi di fronte a “creature” assimilabili nell’aspetto a insetti, capaci di generare fobie e paure istintive, tanto più quando, come in “The Invaders”, assumono dimensioni “gigantesche” (se guardate come insetti). Mi sono chiesto quanto questo stimolo “fobico”, accresciuto anche dallo spazio, quello di un rifiugio-bunker, fosse o meno cercato e propedeutico alla successiva narrazione espositiva.

Assolutamente si. Come ben suggerisci ai tuoi lettori, l’arte non và razionalizzata, ma sentita, percepita. Questo non è solo un modo di fruire l’arte, è anche un modus operandi, almeno per me. E’ stato un susseguirsi di intuizioni: il titolo apocalittico, i vari pezzi che pian piano prendevano forma, quelle forme, mi sono ben presto resa conto che, così come nel vangelo di Giovanni, ho ricreato una narrativa dal pathos crescente. Lungo i corridoi e attraverso le celle, è come se presentassi “le piaghe” di questa società, ciò che ci rende marci come uomini. La violenza sulla donne, una politica sconsiderata, una religione che invece di salvarci ci strozza, l’omofobia, l’accentramento del potere e l’egocentrismo.

Noemi Priolo, Amor Mundi

Noemi Priolo, Amon Mundi

Affermi di voler mettere in discussione, nella tua ricerca artistica, la percezione della propria natura da parte della specie umana. Nel testo che introduce alla mostra si legge “Se fosse l’ideale stesso di umanità sbagliato? Magari abbiamo frainteso. Se quello che crediamo di essere, che ci sforziamo di essere, sia irrealizzabile proprio perché diverso da noi? Dovremmo cambiare, diventare noi stessi. [..]
Ho notato che in alcune delle opere in mostra, ma anche in tue opere precedenti, hai scelto di utilizzare la figura umana, ma privandola della testa e del volto, del tutto o sostituendola. Una cancellazione, della parte dove non solo risiede la nostra sfera più razionale, ma anche che ci consente più di altre di distinguerci come individui. Le creature che troviamo qui esposte sembrano dirci che l’umanità è già condannata, quasi a dover scontare una pena “dantesca”. E’ davvero così?

No, non credo sia così. Non penso che l’umanità sia spacciata e che meriti di fluttuare in un girone dantesco per l’eternità. Penso che ci siamo già!
Credo siamo tanto lontani da quello di cui l’essere umano ha bisogno, in termini di salute fisica, mentale ed emotiva. Questa è la guerra di cui parlo, lenta e perpetua. Una tortura che io reputo autoinflitta.

La tua osservazione in merito alla mancanza del capo nella mia produzione è azzeccata, l’invito che io faccio al fruitore è proprio quello di avviare una percezione di sé più viscerale e meno mentale, muoversi assecondando il flusso sanguigno che scorre nelle nostre vene. Riconnettersi al mammifero che in fondo siamo, che non per forza significa abbandonare il raziocinio. Se il quesito che ci poniamo è, cosa posso fare io, come singolo per me stesso al fine di stare meglio, la ragione ci verrà in supporto suggerendo la risposta giusta. Il problema è che spesso non ci interroghiamo o ignoriamo le risposte che abbiamo già. Continuiamo a ruotare nel nostro turbine quotidiano credendo ci porterà a qualcosa. Questo fa di noi una specie repressa.

Hai scelto di utilizzare in alcune tue opere il carapace delle tartarughe, animale e simbolo molto presenti nelle culture di tutto il mondo. Che significato simbolico gli attribuisci?

Di forza e determinata pazienza. La tartaruga è un animale millenario, è tenace, resiste ancora oggi a questa guerra ambientale in cui tutto ciò che era, muta, svanisce. Non a caso è la rappresentazione del soldato, il guerriero. In My Shell viene presentata come il pezzo di un’armeria, dell’armata di Mater Natura, ma ne rappresenta anche il soldato stesso, non solo la corazza. Per coerenza formale, o per diletto, è inclusa anche la simbologia araldica, una calza a rete che veste il carapace sottolineando chiaramente un'appartenenza femminile dell’oggetto.

Noemi Priolo, My Shell

Noemi Priolo, My Shell

Vuoi a questo proposito dirci qualcosa sull’opera che si trova nell’ultima stanza del percorso espositivo, che non a caso si intitola “Fine

Fine e’ un’installazione di lunga gestazione, si trova nell’ultimo salone, quello della guerra. E’ la visualizzazione del campo di battaglia a guerra conclusa.
Cadaveri, disordine, silenzio e una certa dose di violenza. E’ così che immagino un luogo attraversato da un conflitto armato. Seguendo il percorso della mostra nel suo dispiegamento temporale è possibile rintracciare il passaggio precedente a questa “carneficina”, una piccola scultura dal titolo My tank, Il mio carrarmato. E’ esposta nella stessa stanza e si pone a completamento dell’armeria di Mater Natura. In questo modellino i gusci però sono raccolti, in qualcosa di molto simile a una formazione a testuggine. Poi c'è l'esplosione, il conflitto vero e proprio e dunque la formazione si rompe.

Noemi Priolo, My Tank

Noemi Priolo, My Tank


Da questo passaggio nasce Fine, che assimilo dunque a una gestualità che io per prima ho dovuto metabolizzare e accettare, lanciando i gusci per terra, infilzandone qualcuno, spezzando le lance e immaginando come si muore.

Ricordiamoci però che a me piacciono le parole, e Fine, in inglese ha ancora un altro significato.

Noemi Priolo, Eco Balance Act

Noemi Priolo, Eco Balance Act (dettaglio)

Per chi volesse approfondire ulteriormente la conoscenza dell'artista, oltre che confrontarsi con la sua rapprensentazione di "io sono il primo e l’ultimo e il vivente", ricordiamo che durante il finissage è prevista la sua presenza. Potrete incontrare Noemi Priolo sabato 5 novembre dalla 16:00 alle 19:00, presso il Bunker di Villa Caldogno.

Per maggiori informazioni sulla fruizione della mostra in generale rimandiamo alla scheda dell'evento.

Per maggiori informazioni sulla biografia e produzione artistica di Noemi Priolo rimandiamo invece al suo sito personale.

Un ringraziamento infine a Noemi per il tempo che ci ha voluto dedicare!

A.G.

Pubblicato il 31/10/2022

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