Arte contemporaneaMostre a Napoli

InterACTION Napoli. The Other and the Otherness

  • Quando:   16/03/2024 - 28/09/2024
InterACTION Napoli. The Other and the Otherness
Interaction Napoli 2024, ph Francesco Squeglia, Fondazione Made in Cloister

Il 16 marzo 2024 si inaugura a Napoli la seconda edizione di "Interaction Napoli" mostra biennale d'arte contemporanea internazionale i cui progetti si estendono fino al 28 settembre 2024. 

Il tema di questa edizione, "l'Altro e l'Alterità", è stato affrontato da 30 artisti provenienti da diverse parti del mondo. La mostra indaga problematiche della contemporaneità legate ai fenomeni migratori e alla complessità delle relazioni tra diverse culture, tradizioni e religioni.

Gli artisti

Radu Belcin (Romania), Domenico Bianchi, Veronica Bisesti, Giuditta Branconi, Margaux Bricler (Francia), Chiara Calore, Letizia Cariello, Gianluigi Colin, Vanni Cuoghi, Francesco De Grandi, Zehra Dogan (Turchia), Cian Dayrit (Filippine), Sergio Fermariello, Daniele Galliano, Ximena Garrido-Lecca (Perù), Silvia Giambrione, Arvin Golrokh (Iran), Jung Hye Ryun (Corea), Sophie Ko (Georgia), Filippo La Vaccara, Loredana Longo, Liu Jianhua (Cina), Troy Makaza (Zimbabwe), Samuel Nnorom (Nigeria), Henrik Placht (Norvegia), Aurelio Sartorio, Andres Serrano (Stati Uniti), Mortem Viskum (Norvegia), Wang Guangyi (Cina), Yue Minjun (Cina)

Prodotta dalla Fondazione Made in Cloister, Interaction Napoli 2024 è curata da Demetrio Paparoni, a cui era stata affidata anche la curatela dell'edizione del 2022.
La mostra raccoglie opere realizzate con linguaggi e tecniche diverse, in buona parte site-specific, che non mancano di guardare in piena autonomia anche alle scienze sociali e ad affrontare la questione in termini politici.... leggi il resto dell'articolo»

Per questa edizione, oltre alla principale location all'interno del Chiostro di S. Caterina, sede della Fondazione, nel centro storico napoletano, si è deciso di allargare il progetto espositivo all'intero distretto di Porta Capuana utilizzando alcuni luoghi storici, non istituzionalmente dedicati all'arte contemporanea: il Parco di Re Ladislao con un installazione dell'artista Ximena Garrido-Lecca, il chiostro del Liceo Artistico di Napoli con l'artista cinese Liu Jianhua ed il cortile dell'Hotel Palazzo Caracciolo con Daniele Galliano.

Tra le caratteristiche principali della rassegna, come evidenzia il suo stesso nome, prevale l'interazione delle opere con lo spazio espositivo, oltre alla collaborazione tra gli artisti. L'insieme espositivo, lontano dalla logica del cubo bianco, si presenta così come un insieme in cui le opere dialogano tra di loro e con lo spazio.

Come scrive in catalogo il curatore, Demetrio Paparoni: «La difficoltà di affrontare e gestire i fenomeni migratori ha origine nella storica complessità̀ del rapporto con l'estraneo. Il conflitto sorge nel momento in cui ravvisiamo nell'estraneo una figura che esprime valori che possono apparire incompatibili con la nostra visione del mondo. È evidente che per noi è straniero un californiano quanto un cittadino della Costa d'Avorio, ma è altrettanto evidente che incontriamo maggiori difficoltà a entrare in dialogo con chi ha abitudini culturali più distanti dalle nostre, che proprio per questo avvertiamo come una categoria umana cui non riconosciamo lo stesso status di civiltà. Questo atteggiamento ha prodotto schiavitù, segregazione razziale, ghetti, muraglie e fossati, e non può che favorire discriminazioni e ingiustizie. Di contro, accogliere il migrante significa vedere nella diversità̀ una ricchezza piuttosto che una minaccia. Aprirsi alle differenze consente di arricchirsi delle esperienze che ciascuno porta con sé. Questo non vale solo nel rapporto con lo straniero.
Il rapporto con l'Altro riguarda anche il modo in cui ci relazioniamo al mondo naturale e a quello artificiale. Sentire la natura come Altro e pensare di potersi porre al di sopra di essa e dominarla ha spesso conseguenze incontrollabili per il genere umano. La convinzione di poter disporre e piegare la natura alle nostre esigenze, se da un lato porta vantaggi a chi possiede conoscenze e mezzi tecnologici, dall'altro introduce degli elementi di squilibrio che colpiscono il mondo vegetale, quello animale e infine tutti noi. Basti pensare ai disastri derivanti dal cambiamento climatico.»

Davide de Blasio, Vicepresidente della Fondazione Made in Cloister rimarca che «Interaction Napoli 2024 propone uno straordinario scenario di visioni e speranze che contribuisce a sottolineare il valore etico dell'arte. I testi che i singoli artisti hanno realizzato per il catalogo della mostra compongono un corpo unico con le opere e rappresentano un vero e proprio manifesto che ci ricorda che l'Arte è Speranza.»

Il catalogo della mostra raccoglie, oltre al testo introduttivo dell'autore, i testi degli artisti, le immagini delle singole opere e vedute della mostra nel suo insieme, ospita saggi di Alessandro Beltrami, Elio Cappuccio e Gabriele Perretta.

La Fondazione Made in Cloister è nata nel 2012 su iniziativa di Rosalba Impronta e Davide de Blasio con il restauro del chiostro cinquecentesco della Chiesa di Santa Caterina a Formiello, raro esempio di Rinascimento napoletano e archeologia industriale, che versava in uno stato di totale abbandono. È una fondazione privata riconosciuta, parte di Federculture, iscritta all'albo della Regione Campania, la prima Fondazione ad aver stipulato una convenzione con il Comune di Napoli in ambito culturale.
La storia del luogo e la sua posizione hanno definito il progetto di riconversione: recuperare una parte del patrimonio culturale della Città di Napoli per destinarla al rilancio delle tradizioni artigianali rinnovandole con spirito contemporaneo attraverso la realizzazione di progetti con artisti e designer internazionali.

Il progetto Made in Cloister si articola su tre pilastri: recupero e riconversione del patrimonio artistico per uno sviluppo coerente con la vocazione del territorio; rilancio del "fare artigianale" attraverso l'interazione tra maestri artigiani e artisti e designer internazionali; generare riqualificazione urbana e impatto sociale attraverso un progetto culturale.

InterACTION Napoli 2024 è realizzata con i contributi di D&D D'Amico (main sponsor), della Ceramica di Vietri Franceso De Maio, di Palazzo Caracciolo Napoli, della GESAC, del Liceo Artistico Napoli, dell'Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, dell'EAV e con il patrocinio del Comune di Napoli. Media partner Napoli da Vivere.

InterACTION Napoli. The Other and the Otherness - testo del curatore Demetrio Paparoni

La difficoltà di affrontare e gestire i fenomeni migratori ha origine nella storica complessità del rapporto con l'estraneo.  Il conflitto sorge nel momento in cui ravvisiamo nell'estraneo una figura che esprime valori che possono apparire incompatibili con la nostra visione del mondo. È evidente che per noi è straniero un californiano quanto un cittadino della Costa d'Avorio, ma è altrettanto evidente che incontriamo maggiori difficoltà a entrare in dialogo con chi ha abitudini culturali più distanti dalle nostre, che pro"l'Altro e l'Alterità", è stato affrontato da 30 artisti provenienti da diverse parti del mondoprio per questo avvertiamo come una categoria umana cui non riconosciamo lo stesso status di civiltà. Questo atteggiamento ha prodotto schiavitù, segregazione razziale, ghetti, muraglie e fossati, e non può che favorire discriminazioni e ingiustizie. Di contro, accogliere il migrante significa vedere nella diversità una ricchezza piuttosto che una minaccia. Aprirsi alle differenze consente di arricchirsi delle esperienze che ciascuno porta con sé. Questo non vale solo nel rapporto con lo straniero.

Il rapporto con l'Altro riguarda anche il modo in cui ci relazioniamo al mondo naturale e a quello artificiale. Sentire la natura come Altro e pensare di potersi porre al di sopra di essa e dominarla ha spesso conseguenze incontrollabili per il genere umano. La convinzione di poter disporre e piegare la natura alle nostre esigenze, se da un lato porta vantaggi a chi possiede conoscenze e mezzi tecnologici, dall'altro introduce degli elementi di squilibrio che colpiscono il mondo vegetale, quello animale e infine tutti noi. Basti pensare ai disastri derivanti dal cambiamento climatico.

Questi temi sono sentiti dagli artisti, che sovente non mancano di manifestare le loro preoccupazioni con il proprio lavoro. Nella sua installazione aerea US2-Migration, Jung Hyreyun assume il clima metereologico a simbolo del clima sociale, evidenziando come ai disastri climatici corrispondano degli squilibri sociali. Altrettanti rischi si corrono abusando della tecnologia che simula processi di intelligenza umana. Andres Serrano affronta l'argomento nella sua serie fotografica The Robots (2022), che ha come soggetti dei robot giocattolo. A Napoli, Serrano propone un ingrandimento gigantesco di una di queste immagini, KOYoshiya High-Wheel Robot. In tal modo, il robot giocattolo ci sovrasta come potrebbe fare in futuro una macchina dotata di intelligenza artificiale se acquisisse una piena autonomia e cominciasse ad avere una vita propria. In questa visione distopica, gli esseri umani potrebbero diventare, ci dice Serrano, quello che i nativi americani sono stati per i conquistatori del Nuovo Mondo. L'intelligenza artificiale potrebbe anche essere in grado di elaborare una dottrina che giustifichi la schiavitù, l'annientamento del genere umano e nuove forme di colonialismo. Ed è proprio il neocolonialismo il tema che affronta Cian Dayrit nei suoi arazzi. Secondo l'artista, il capitalismo e il neocolonialismo hanno distrutto il tessuto sociale del suo Paese, le Filippine, spingendo la popolazione a emigrare, affamando i lavoratori interni e divulgando attraverso il sistema scolastico teorie che finiscono per alimentare i pregiudizi razziali. «Questo sistema», scrive in queste stesse pagine l'artista, «è dominato dalla logica del capitalismo monopolistico contemporaneo in cui l'Altro è un prodotto (Edward W. Said), lo spazio è astratto (Henri Lefebvre) e la natura è svalutata (Jason W. Moore)». Il tema affrontato da Dayrit è connesso alla mancanza di accesso ai necessari mezzi di sostentamento cui fa riferimento in Dinner Time anche Silvia Giambrone, che incatena delle posate al muro.

I pregiudizi razziali alimentati da teorie pseudoscientifiche costituiscono il focus del lavoro di Wang Guangy, che li ha affrontati a partire dal 2017 nella serie Popular Study on Anthropology, di cui propone in questa mostra una versione site-specific. Realizzata con stampe giclée su grandi fogli di carta, poi montati su alluminio, questa serie presenta volti umani le cui caratteristiche somatiche sono state associate a una particolare etnia che l'artista riporta nella didascalia sia in cinese che in inglese. Una di queste opere, quella contrassegnata dalla scritta "Race and Violence", si appropria di alcune illustrazioni incluse nel libro di Alfred Eydt intitolato Schreibers rassenkundliche Anschauungstafel: Deutsche Rassenköpfe, pubblicato nel 1934 in Germania.

Il libro di Eydt riassume le tipologie razziali che componevano la popolazione europea secondo le teorie elaborate tra gli anni Venti e gli anni Trenta dall'antropologo tedesco Hans F.K. Günther. Questi aveva suddiviso gli europei in nordici, fàlici, occidentali, orientali, slavi, baltici dell'est e, in base alle caratteristiche fisiche e morali, aveva stabilito una gerarchia dei diversi gruppi etnici al cui vertice aveva posto i nordici. Trasferendo le teorie di Lamark e di Darwin dalla biologia all'antropologia sociale, Günther era giunto alla conclusione che per ottenere una popolazione con le caratteristiche fisiche e morali di una razza superiore fosse necessario incrementare la riproduzione di individui che con il loro sangue potessero trasmettere questi caratteri desiderabili. Per lo stesso motivo bisognava impedire a individui il cui sangue non aveva valore di riprodursi.

Tesi altrettanto prive di supporto scientifico, elaborate nei due secoli precedenti in altri paesi, avevano portato a giustificare lo sfruttamento coloniale e lo schiavismo. Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento c'era stata una svolta nel modo di affrontare il tema della razza: avvalendosi di craniometria, antropometria, psicometria, e test per la misurazione del quoziente intellettivo alcuni studiosi di varie nazionalità avevano aperto la strada all'eugenetica.

Nel libro di Eydt i volti pubblicati avrebbero dovuto riassumere gli elementi che caratterizzano le diverse razze presenti in Europa. Ripresi da Wang Guangyi con una fotocopiatrice, ingranditi in negativo in modo da accentuare l'effetto del retino fotografico e riportati con una dominante blu su un fondo nero, i volti che troviamo in "Race and Violence" di Popular Study on Anthropology inducono a riflettere sullo scarto che si crea tra l'aspetto esteriore dell'individuo e la sua intrinseca identità. In altre parole, sostiene l'artista, ciò che l'individuo è realmente si intravvede appena, sfugge alla comprensione razionale. Per essere ancora più precisi: legato alla dimensione spirituale e alla sfera del sacro, quel che definisce veramente l'essenza e l'unicità dell'individuo è sempre coperto da qualcosa che lo occulta. Resta il fatto che le teorie ottocentesche di origine positivista secondo cui gli individui si possono dividere in razze diverse sono state negli ultimi cinquant'anni ampiamente destituire di fondamento da paleontologi e biologi. Oggi sappiamo che risponde al falso l'idea che il colore della pelle e i tratti somatici permettano di catalogare gli esseri umani in gruppi omogenei.

Il sospetto e la paura hanno sempre avuto un ruolo determinante nell'indirizzare il sentire collettivo e sono stati strumenti di cui il potere si è servito per convincere le masse ad acconsentire a cedere parte della propria libertà in cambio di protezione. Anche questi temi sono stati trattati spesso da Wang Guangyi che, tra 1994 e il 1998, con le serie di opere Passport, Visa e Virus Carrier ha sottolineato come nella classificazione degli individui attraverso documenti identificavi e nella registrazione delle caratteristiche al fine di una migliore organizzazione burocratica si sottintende che in ciascun individuo si nasconde un potenziale pericolo per la collettività.

Yue Minjun fa notare che l'essere esposti alle stesse informazioni, idee, prodotti o cibi provenienti dal contesto internazionale, modifica la percezione che abbiamo dell'Altro, in cui riconosciamo, oltre ciò che ci differenzia, anche ciò che ci accomuna. L'artista cinese affronta la questione delle trasformazioni sociali ricordando che «a nessuna persona può essere attribuita una singola identità, e allo stesso tempo nessun individuo rappresenta esclusivamente un periodo storico; piuttosto, stiamo tutti convergendo verso un comune e indifferenziato universo». Il fenomeno della globalizzazione cui fa riferimento Yue Minjun ha tuttavia tra i suoi risvolti l'insorgere di diverse forme di nazionalismo esasperato che si stanno diffondendo sempre più in tempi recenti. Proprio perché attenua le diversità culturali, la globalizzazione è avvertita come una minaccia da chi sente che le proprie peculiarità vengono messe in discussione. Alla base dei nuovi rigurgiti nazionalisti c'è proprio il rifiuto della convivenza con il diverso, avvertito come l'Altro che, insinuandosi in una comunità a lui estranea, ne inquina e corrompe i valori culturali. In Occidente, poi, la paura di attentati terroristici va a interagire con una presunta cospirazione globale che mirerebbe alla cosiddetta "sostituzione etnica", la sostituzione dei bianchi con popolazioni di altre etnie. Questa paura del diverso, che in tempi remoti ha portato l'iconografia cristiana a dare al demonio, oltre alle caratteristiche delle divinità pagane, i tratti somatici dell'"uomo nero", oggi si affida a una propaganda globale che fa leva proprio sui pericoli insiti nei crescenti flussi migratori.

L'arte ha il potere di incidere sull'opinione pubblica apportando consapevolezze tali da svolgere un ruolo sociale importante. Nel 1840, durante la prima conferenza internazionale contro la schiavitù, William Turner espose a Londra, alla Royal Academy, The Slave Ship, un dipinto oggi esposto al Museum of Fine Arts di Boston, che gli era stato ispirato da un terribile massacro di schiavi africani avvenuto quasi sessant'anni prima.

Nel 1781, la Zong, una nave mercantile inglese, era salpata dalla Costa d'Oro (oggi Ghana) con il suo carico di schiavi destinati al lavoro nelle piantagioni di zucchero giamaicane. Il sovraffollamento del mercantile, che trasportava un carico umano doppio rispetto alla capienza, l'esiguo numero dei componenti dell'equipaggio, l'inesperienza del capitano – un ex medico di bordo – crearono i presupposti della tragedia che viene ricordata come "il massacro della Zong". Gli approvvigionamenti di cibo e acqua erano stati calcolati in previsione di un viaggio tra i tre e i quattro mesi, ma la traversata si prolungò. La nave superò infatti la meta stabilita e, quando ci si rese conto dell'errore commesso, la situazione a bordo si era già molto deteriorata. Acqua e viveri scarseggiavano, il capitano, parte dell'equipaggio e degli schiavi erano gravemente ammalati. Altri erano già morti. Inoltre, l'imbarcazione era minacciata dall'arrivo di un tifone.

I mercanti di Liverpool proprietari della nave avevano stipulato una polizza assicurativa sul carico, che non prevedeva risarcimento se gli schiavi fossero morti a bordo per cause naturali o quando fossero già sbarcati. Sarebbe stato invece riconosciuto un indennizzo se si fosse deciso di sacrificare parte del carico per salvare almeno il salvabile. I primi a essere immolati alle ragioni del profitto furono donne e bambini, seguiti, nei giorni successivi, dagli uomini che rischiavano di morire a bordo. Centoquarantadue persone furono gettate in catene in pasto ai pesci nel mar dei Caraibi.

Quando la nave giunse a destinazione con il suo carico di uomini dimezzato, la proprietà inglese chiese l'indennizzo all'assicurazione, che oppose un rifiuto per violazione delle clausole contrattuali. Ne seguì una causa che vide la vittoria dei proprietari in prima istanza, ma il cui verdetto fu ribaltato in appello a favore della compagnia assicurativa, che poté contare anche sul sostegno di attivisti antischiavisti. La condanna dei mercanti atteneva solamente alle violazioni contrattuali e non aveva niente a che vedere con la crudele uccisione di esseri umani per annegamento.

Muovendo da quella tragedia, Turner raffigura un mare in tempesta, sferzato dal vento che solleva alte onde. In lontananza una nave tenta di resistere alla violenza del tifone. Ma il dramma si è già consumato, come testimoniano il cielo e il mare che si tingono di rosso, mentre una gamba incatenata emerge dall'acqua, circondata da pesci famelici, e mentre delle mani si allungano nel disperato gesto di chi chiede aiuto. È anche grazie all'opera di Turner e alla letteratura che è nata intorno all'episodio se questa dolorosa pagina di storia continua a essere ricordata e tramandata. Ma soprattutto The slave ship diede nell'immediato nuova forza alla causa di quanti si opponevano alla schiavitù. Il dipinto di Turner incontrò tuttavia, salvo qualche eccezione, l'ostracismo della critica e fu poco gradito al pubblico.

Curiosamente, quando l'opera fu presentata nell'ambito della settantaduesima esposizione della Royal Academy, un altro dipinto incentrato sul tema dello schiavismo – The Slave Trade di François-Auguste Biard, 1835 – ebbe invece ben altra accoglienza. Benché i due dipinti trattassero un tema analogo, con toni drammatici, l'opera di Biard non indignò il pubblico grazie al suo linguaggio classico e rassicurante. Nell'opera di Turner, invece, a creare inquietudine sono anche le pennellate nervose, il colore del mare che assorbe l'umore di un cielo infuocato, l'immagine poco definita che sembra filtrata dal vapore acqueo. Il cielo e il mare sono attraversati da un taglio di luce che sembra scavare un solco pronto a inghiottire tutto. Turner rende così la natura un soggetto attivo del dramma. I temi trattati rimanevano comunque ostici per i potenziali acquirenti di entrambi i quadri. Infatti, per quanto il Regno Unito avesse varato nel 1807 una legge che rendeva illegale la tratta degli schiavi, la schiavitù rimase legale fino al 1833, due anni prima che Biard dipingesse il suo The Slave Trade.
La crudeltà del crimine raccontato da Turner sembra appartenere a un tempo remoto che nulla ha a che fare con il nostro presente, ma i comportamenti disumani a cui ci rimanda non sono estranei alle dinamiche economiche che ieri come oggi condizionano le scelte dei governi, oltre che i nostri comportamenti.

A far da comun denominatore alle storie di schiavitù e di migrazione è la sofferenza di chi sa non essere accettato e rispettato, la diffidenza che si ritrova a subire. È agendo su questa debolezza che nasce lo sfruttamento economico della mano d'opera a basso costo, che per i migranti dei nostri giorni diviene una nuova forma di schiavitù. Lo sfruttamento delle risorse altrui da parte dei paesi ricchi, il cambiamento climatico dovuto alle emissioni di CO2 nei paesi industrializzati, l'instabilità politica generata dagli interessi geopolitici dei paesi dominati si ripercuotono sulle scelte di vita di milioni di persone. I fenomeni migratori contemporanei ci portano oggi a rivedere la storia della schiavitù. C'è dunque un filo rosso che lega le vicende di chi ieri è stato forzatamente portato via dal proprio luogo di origine e di chi invece il proprio luogo di origine è costretto a lasciare nella speranza di avere una vita migliore o semplicemente di poter continuare a vivere.
I comportamenti umani o disumani hanno molto a che fare con l'economia e le leggi del profitto. Per quanto quel tipo di schiavismo oggi non esista più, la sua storia rimane un tema ancora dibattuto per l'impressionante perdita di vite umane che ha comportato e per le conseguenze che ha avuto sull'assetto sociale ed economico nel mondo. Lo dimostra l'ampio dibattito avviato sulle pagine del NYTM nel 2019, titolato The 1619 project, coordinato da Nikole Hannah-Jones, che ha poi dato vita a un libro che raccoglie gli interventi pubblicati dal Magazine e altri saggi sul tema.

Howard W. French, nel suo L'Africa e la nascita del mondo moderno. Una storia globale, fa notare come i dodici milioni di schiavi deportati dall'Africa e i prodotti del loro lavoro a bassissimo costo abbiano generato profitti straordinari, che sono poi confluiti nel finanziamento della Rivoluzione industriale. È a questi profitti che si deve la diffusione tanto del modello economico europeo quanto della visione del mondo derivata dall'illuminismo, che per le vicende complesse della storia sta paradossalmente alla base della moderna concezione dei diritti umani.

Va anche considerato che l'abolizione della schiavitù da parte del governo inglese comportò un'emissione imponente di debito pubblico per risarcire i possessori delle aziende agricole che nei loro bilanci riportavano non solo il valore delle terre ma anche quello degli schiavi. Tra gli azionisti di queste aziende c'era il fior fiore della buona società inglese. Negli Stati Uniti, invece, lo schiavismo andò avanti fino alla Guerra Civile. In questo caso non ci fu risarcimento da parte dello Stato per proprietari di schiavi.
Il mare ha fatto da scenario a conquiste eroiche e agguati, è stato veicolo di salvezza e di sconfitta, testimone di battaglie epiche, di avventure alla ricerca di nuove terre, di razzie, di scambi commerciali, di felici approdi e disastrosi naufragi, di diaspore, di fughe. Questa sua valenza politica ed esistenziale echeggia nell'arte di tutti i tempi che, ricollegandosi talvolta a eventi reali, ne ha tratto metafore e simboli.

Ancor prima di The slave ship di Turner molte altre opere sono state ispirate da fatti realmente accaduti incentrati su drammi in mare. Ne sono esempi emblematici Watson and the Shark (1778) di John Singleton Copley o La zattera della Medusa (1818-19) di Théodore Géricault, in cui si sono letti elementi di critica allo schiavismo. Singleton dipinse Watson and the Shark ricordando il vano tentativo di salvare un giovane che, trent'anni prima, incautamente si era tuffato da una barca nel porto dell'Avana ed era stato assalito da uno squalo. Nel dipinto, tra gli uomini che cercano di salvare il giovane c'è un marinaio nero che, mentre in piedi cerca di fare in modo che la barca non si sbilanci, lancia una fune in acqua offrendo un appiglio allo sfortunato ragazzo. Un nero è al centro della scena anche nel quadro di Géricault La zattera della Medusa, ispirato a un naufragio avvenuto realmente due anni prima a largo dell'attuale Mauritania. Un gruppo di naufraghi che non avevano trovato posto sulle scialuppe destinate a chi godeva di maggiori privilegi visse un'esperienza terribile su una zattera. Prima di essere tratti in salvo da un battello, i pochi superstiti videro morire i compagni di fame o di suicidio e arrivarono a nutrirsi della carne dei cadaveri. Riportato dalla stampa grazie alla testimonianza di un sopravvissuto, l'episodio colpì enormemente l'opinione pubblica, indignata dal destino riservato a chi non godeva di privilegi.

Così come ieri il principale scenario della tratta degli schiavi era il mare, oggi lo è di fenomeni migratori che ci mettono davanti alla disparità di condizioni di vita che portano milioni di esseri umani a sfidare la sorte su imbarcazioni di fortuna. Nell'arte dei nostri giorni il mare torna così a far da sfondo a storie drammatiche, come accade in Naufragio di Francesco De Grandi. Nonostante la resa stilistica del quadro, che ha un'impronta romantica e che echeggia i tanti naufragi della storia della pittura, a riportarci ai drammi contemporanei sono le camere d'aria e i giubbotti salvagente arancioni indossati dai passeggeri. Nel dipinto, l'imbarcazione di legno, sovraccarica, con la vela gonfiata dal vento è alla mercé di onde minacciose. È immersa in una luce notturna, dai riflessi rosa e irreali che richiamano la pittura di ex voto, soprattutto quella della tradizione marinara in cui è l'intervento soprannaturale a portare alla salvezza. Il dipinto non si riferisce a un evento o a un tempo preciso, è un compendio di tutti i naufragi, reali, pittorici e fotografici di cui l'artista ha memoria. Pertanto, i naufraghi hanno un'identità indefinita: non ci è dato sapere chi sono, da dove provengono e dove vanno. A rimarcare l'atemporalità del dramma concorre la grande onda bianca che da sinistra investe l'imbarcazione e che richiama alla memoria l'onda di Hokusai. Christ in the Storm on the Sea of Galilee (1630) di Ludolf Backhuysen e l'omonimo dipinto (1633) di Rembrandt, La grande onda di Kanagawa (1830) di Hokusai, The slave ship (1840) di Turner, le rappresentazioni degli ex voto e i reportage fotografici dei nostri giorni finiscono per convivere all'interno del perimetro dello stesso quadro. L'attraversamento del mare coincide così con l'attraversamento della storia dell'arte e della storia delle immagini.

La narrazione di The Slave Ship di Turner ritorna in The Zong (Resurrection) di Vanni Cuoghi, in cui la caduta in mare degli schiavi dalla nave richiama un tema classico della storia dell'arte, la caduta degli angeli ribelli. In quest'opera però le magliette e i jeans indossati dagli schiavi gettati in mare dalla Zong creano una sovrapposizione tra la figura dello schiavo di ieri e quella del migrante di oggi. Cuoghi ha ritagliato su una tela priva di telaio la sagoma degli uomini gettati in mare che, ripiegandosi su se stessa, crea un negativo in cui la caduta si trasforma in un movimento ascensionale. Attraverso il vuoto lasciato dal ritaglio, si può percepire una parte della grande tela di Gianluigi Colin che copre una parete lunga oltre dodici metri e alta quattro.
Ottenuta da tessuti utilizzati il 27 febbraio 2023 per pulire i macchinari di stampa di un quotidiano che riportava la notizia della strage di migranti di Steccato di Cutro, l'opera di Colin porta con sé la memoria di quei fatti tragici. Le tracce di inchiostro che vanno a costituire una griglia pittorica sono metaforicamente i fantasmi di una cronaca che giornalmente racconta le storie, i drammi e le decisioni politiche da cui queste tragedie spesso dipendono. Concepita come un'interazione di artisti di diversa provenienza e modus operandi, oltre all'opera di Cuoghi la parete accoglie, in un insieme unificato proprio dalla tela di fondo, un dipinto su tovaglia dell'artista curda Zhera Doğan e un altorilievo in silicone di Troy Makaza. Le storie di violenze perpetrate contro i curdi e il senso di solidarietà che permette loro di non soccombere, evocate da Doğan, si intrecciano con le storie di crudele sfruttamento del lavoro dei contadini, degli animali e della terra che Makaza richiama attraverso un campo arato e un mattatoio impregnati di sangue, un paesaggio rurale del suo paese, lo Zimbabwe. Questa dura visione della realtà è stemperata dalla schiuma bianca delle onde dell'oceano visto come simbolo di libertà. Ulteriore elemento dell'installazione è una elaborazione su lastra di alluminio, realizzata da Colin, di una copertina di Time che riproduce un barcone alla deriva accompagnato dallo strillo: "Welcome to Europe".

La storia delle migrazioni e degli sconvolgimenti geopolitici fa da sfondo anche ai dipinti World in Collision (2024) di Daniele Galliano e Visione fantastica (2024) di Arvin Golrokh. Galliano raffigura un planisfero sorvolato da aerei militari, il cui mare, di un blu profondo, è attraversato da barconi e gommoni carichi di gente, che vanno nelle direzioni più disparate. Dall'acqua emergono anche alcuni corpi isolati, presenze indefinibili, naufraghi o fantasmi. A sottolineare l'assurdità di quanto accade nel mondo, l'artista ha poi costellato la rappresentazione di invocazioni, preghiere e frasi ironiche. Da parte sua, rifacendosi a un dipinto omonimo di Goya del 1822, Golrokh, mette in scena diversi momenti di un esodo di massa. Golrokh sottolinea come le difficoltà dei profughi non si esauriscano con la fine del loro peregrinare. Nel rimarcare come quella del migrante sia una condizione senza pace, l'artista ha affermato che «la destinazione finale riserva uno status di sottomissione, di discriminazione razziale, di respingimento e di delusione delle aspettative di accettazione e inclusione».

I grandi eventi del passato, anche i più cruenti, filtrati dalla lente dell'arte amplificano la loro capacità di coinvolgerci. Appresi attraverso i libri di storia ci appaiono invece lontani da noi, al pari di fatti di cronaca che avvengono in altre parti del mondo. L'arte e la letteratura hanno il potere del mito, trasformano il particolare in universale e, così facendo, creano il substrato culturale su cui si fondano i nostri dubbi e le nostre certezze, i nostri comportamenti e i nostri principi morali. Una storia antica di migrazione o di schiavitù o di persecuzione che ci giunga attraverso l'arte tocca le corde dell'emotività e ci costringe a una riflessione che va al di là del fatto in sé. Sophie Ko ha dato la sua rappresentazione plastica del modo in cui l'arte va oltre la pura percezione del reale nell'opera Il Porto (2021), di cui propone una nuova versione site-specific in questa mostra. Nell'opera la struttura usurata di una vecchia finestra semiaperta, senza vetri, sollevata da terra da due travi di legno spezzate provenienti da una ferrovia, diviene la cornice che consente di guardare la realtà attraverso l'arte. Priva della funzione che ha rivestito in una casa, la finestra si apre su un muro parzialmente rivestito di carta da parati azzurra attraversata da un rettangolo in foglia d'oro che ci riporta ai fondi prerinascimentali e alla loro simbologia. Ciò che vediamo oltre la finestra non è lo spazio del reale, eppure quel che l'insieme ci racconta è vero. Le travi di legno spezzate evocano insieme la barca, il viaggio e il naufragio di cui fa sintesi una foto sgranata, scaricata da Internet, di un barcone di migranti arenato, incastrata in basso a destra nel legno della finestra. Il vero, come nel mito, non è tanto nell'opera così come si presenta ma nel significato che essa incarna.

Sergio Fermariello e Margaux Bricler affrontano il tema delle grandi migrazioni utilizzando riferimenti iconografici della Grecia del periodo arcaico. Quello delle migrazioni, del resto, è un fenomeno antico, presente nelle narrazioni mitologiche e religiose e più volte oggetto di rappresentazioni artistiche. La videoinstallazione Avviso ai Naviganti (2024) di Sergio Fermariello, versione digitale di una installazione itinerante realizzata in mare per la prima volta nel 1999, mette in scena il naufragio dei compagni di Ulisse nel Mediterraneo riprendendo i motivi del celebre cratere euboico del naufragio di Ischia (730 a.C.). Veicolato dall'arte, quel naufragio raccontato migliaia di anni fa, nel giungere fino a noi, ci parla anche del presente. La sua storia è fatta di ostacoli da superare, nostalgia di casa, sogni infranti, fallimenti, lutti. Ulisse e i suoi compagni si sono trovati ad affrontare situazioni e domande impreviste a cui dare risposta, consapevoli che la loro vita sarebbe dipesa proprio dalle scelte prese e dalle risposte date.
Bricler ci riporta invece alla narrazione della Sfinge dei Nassi (570-560 a.C.). Nel suo lavoro, un autoscatto stampato in dimensioni gigantesche su carta e incollato al muro come un manifesto, una mano femminile tiene una cartolina che raffigura la Sfinge, cartolina che si interpone tra noi e un paesaggio di solo cielo e mare, tagliato dall'orizzonte. In primo piano le acque del mare si tingono di rosso. Il titolo dell'opera, «Chiedimi», disse prima di affogare (2024) fa immediatamente pensare a qualcuno pronto a sfidare la sorte sottoponendosi all'enigma della Sfinge, enigma a cui non saprà dare risposta e che segnerà il suo destino. L'opera dà immagine, come scrive la stessa artista, alla «relazione travagliata tra realtà e mito». In questo caso la Sfinge nega l'accesso al porto agognato come punto di arrivo. Immediato il riferimento alle tante storie di migranti che sfidano la sorte.

Nel ricordarci che «ovunque noi viviamo, siamo solo ospiti di passaggio su questo pianeta» Enrik Placht rimarca come nei confronti degli altri dovremmo avere un atteggiamento guidato dalla volontà di comprendere. Il suo wall painting astratto è dedicato a Marco Polo, figura in cui l'artista riconosce un atteggiamento di apertura e sana curiosità nei confronti di chi vive in un mondo lontano. Nell'affermare la dignità dei migranti, Liu Jianhua e Filippo La Vaccara li presentano fuori da una condizione di marginalità. Aurelio Sartorio crea invece un cortocircuito tra i colori fluorescenti dei giubbotti dei rider e le fantasie etniche che richiamano la provenienza di molti migranti. Veronica Bisesti si focalizza invece sulla dualità uomo-natura per denunciare «il continuo addomesticamento della natura esercitato dall'azione umana», che rappresenta una minaccia per specie vegetali e animali.

Da parte loro, Radu Belcin e Chiara Calore rimarcano che le migrazioni ci sono sempre state e sempre ci saranno e che gli esseri umani, per quanti ostacoli vengano loro opposti, troveranno sempre il modo di andare dove trovano condizioni che permettano loro la sopravvivenza. Belcin crea una relazione tra passato, presente e futuro ponendo in primo piano due statue composite di marmo e vetro, la cui parte inferiore riprende la statuaria greco-romana, mentre la parte superiore, che mima la trasparenza del vetro, guarda a forme indefinite. Calore fa emergere dalle acque del mare una Venere parzialmente coperta da un sudario bianco che simboleggia le tante speranze che rischiano di essere infrante. Lo scenario attorno a lei fa riferimento a storie di naufragi.
Declinato formalmente e concettualmente in maniera sempre diversa, il tema del rapporto con l'Altro ci parla dell'esperienza umana in tutta la sua complessità. Morten Viskum e Loredana Longo ci raccontano storie di esclusione dell'Altro dal proprio orizzonte mentale mettendo in scena il delirio di potenza dei dittatori, storie di confini violati dai più forti con la violenza e chiusi ai più deboli. Giuditta Branconi, Domenico Bianchi, Letizia Cariello e Samuel Nnorom affrontano il tema del rapporto con l'Altro facendo interagire le parti dell'opera per creare un organismo unico. In Branconi predomina l'idea di un grande abbraccio tra esseri umani, animali e vegetali; in Bianchi ad affiorare è invece un'energia centrale che si irradia su tutto, creando un corpo unico; in Cariello predomina l'idea che siamo tutti collegati in una sorta di rete e che ogni nostro gesto o decisione ha delle conseguenze sugli altri. Nei tessuti stampati in cera africana di Samuel Nnorom questa visione di interconnessione si carica di una valenza positiva, evocata dalla simbologia dell'alba, intesa come rinascita.

Siamo tendenzialmente portati a rimuovere le situazioni dolorose che non ci toccano da vicino, questo meccanismo di autoprotezione mentale è in parte alla base dei molti problemi non risolti nel mondo, dal momento che riguardano l'Altro e non noi. Cosa può l'arte dinanzi a tutto questo? L'arte sparge sale sulle ferite perché si possa continuare ad avvertire quanto dolore c'è attorno a noi. È in tal senso che una riflessione poetica su un tema esistenziale o drammatico diviene un tentativo di superare una situazione ritenuta inaccettabile.

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InterACTION Napoli. The Other and the Otherness

Napoli, Fondazione Made in Cloister

Apertura: 16/03/2024

Conclusione: 28/09/2024

Curatore: Demetrio Paparoni

Indirizzo: Piazza Enrico de Nicola 48 - 80139 Napoli

Orario: mercoledì-sabato ore 11.00-19.00 | domenica ore 10.00-14.00


Per info: info@madeincloister.it

Sito web per approfondire: https://www.madeincloister.com/