8 marzo: da Yoko Ono a Carla Accardi, l'arte nella storia del femminismo

Da sempre le donne artiste hanno utilizzato il loro talento per sfidare gli stereotipi di genere, esplorare l'esperienza femminile e dare voce alle proprie istanze. Nella settimana in cui si celebra la Giornata Internazionale della donna, ricordiamo alcuni momenti e personaggi che hanno lasciato il segno.

Immagine di presentazione evento "Marina Abramovic / Estasi", 2020-21

Si potrebbe tornare indietro a storie come quelle di Artemisia Gentileschi o Élisabeth Vigée Le Brun, ma vogliamo restare nella modernità, quando a partire dagli anni '60 si può parlare di una vera e propria arte femminista.

Le donne e artiste più impegnate nel rivendicare le istanze femministe hanno utilizzato diverse forme espressive, dalle più tradizionali come pittura e scultura all'arte concettuale, ma è probabilmente la performance art ad avere prodotto alcune delle espressioni artistiche che più fortemente hanno inciso nell'immaginario collettivo e vengono ricordate ancor oggi per la loro forza comunicativa.

 

L'arte femminista: Judy Chicago

Nata a Chicago nel 1939, è stata pioniera dell'arte femminista, famosa per le sue installazioni che esplorano la storia e l'esperienza delle donne.

Judy Chicago è conosciuta soprattutto per la sua opera The Dinner Party (1974-1979). Quest'opera, a cui hanno partecipato centinaia di volontari, è custodita dal 2002 nel Brooklyn Museum of Art ed esposta in modo permanente all'interno del Centro Elizabeth A. Sackler per l'arte femminista, aperto nel marzo 2007. L'opera è un tributo alla storia delle donne sotto forma di un grande tavolo triangolare che comprende 39 coperti, i cui piatti stilizzati rendono omaggio a 39 donne celebri. L'opera vuole essere un monumento alla memoria delle donne escluse dalla Storia.

Thr Dinner's Party

Judy Chicago (American, born 1939). The Dinner Party, 1974–79. Ceramic, porcelain, textile, 576 × 576 in. (1463 × 1463 cm). Brooklyn Museum; Gift of the Elizabeth A. Sackler Foundation, 2002.10. © Judy Chicago. (Photo: Donald Woodman)

 

La fotografia contro lo stereotipo maschilista della donna: Cindy Sherman

Cindy Sherman è nata a Glen Ridge, negli Stati Uniti, nel gennaio del 1954). La sua attività artistica è legata alla fotografa, con opere che mettono in scena la femminilità enfatizzata nei suoi stereotipi.... leggi il resto dell'articolo»

Tra le sue opere più celebri va ricordata "Untitled Film Stills" (1977-1980), costituita da una serie di 69 fotografie in cui Sherman si metteva in scena in abiti e pose stereotipate di donne nei film e nella pubblicità, criticando la rappresentazione delle donne nei media. Cindy Sherman è sia l'ideatrice degli scatti che il soggetto protagonista della serie di immagini in bianco e nero di piccolo formato, che evocano gli immaginari cinematografici degli anni Cinquanta e Sessanta. Sherman mette a confronto le immagini del cinema hollywoodiano (in particolare del film di serie B e dei film noir) con le immagini del cinema europeo, volendo prendere in considerazione il cinema come schema di pensiero collettivo e come produttore di immaginario; le immagini generano un doppio livello di finzione che riproducono l'immaginario già di per sé fittizio del cinema.

 

Tra scultura e performace: Hannah Wilke

Hannah Wilke è stata un'artista statunitense della seconda generazione femminista, il cui lavoro in scultura e performance art ha sfidato gli stereotipi di genere e indagato il rapporto tra estetica, erotismo e politica. Wilke ha iniziato la sua carriera come scultrice, creando opere in argilla e terracotta che evocano forme organiche e genitali femminili, simbolo dell'empowerment delle donne negli anni '70. Nel 1974, Wilke ha iniziato a sperimentare con la performance art. Una delle sue prime incursioni in questo genere è stata S.O.S. Starification Object Series. Wilke imita una posa iconica da pin-up, tentando lo sguardo voyeuristico dello spettatore. L'aura di glamour impeccabile che proietta è interrotta dai pezzi di gomma - masticati e impastati per assomigliare a vulve - che deturpano il suo dorso altrimenti perfetto. Secondo l'artista, la gomma simboleggiava lo status di seconda classe delle donne, la loro "usa e getta".

 

La performance come strumento di rivendicazione

Marina Abramović (Serba, classe 1946), è probabilmente la performer più nota al grande pubblico anche in Italia, e tutt'ora una delle artiste più ricercate a livello mondiale, ma non è l'unica ad avere prodotto performance rimaste nella storia della lotta per l'autodeterminazione delle donne, contro l'attribuzione di ruoli di genere.

Ecco alcuni nomi e performance particolarmente significative.

Yoko Ono: "Cut Piece" (1964) - in questa performance il pubblico era invitato a tagliare i vestiti di Ono. L'opera voleva esplorare la vulnerabilità del corpo femminile e la passività assegnata alle donne. La performance fu eseguita per la prima volta da Yoko Ono il 20 luglio 1964 alla Yamaichi Concert Hall di Kyoto, in Giappone. L'artista si siede sul palco con un paio di forbici poste davanti a lei e chiede al pubblico di salire sul palco, uno per uno, e tagliare una parte dei suoi vestiti (ovunque vogliano) e portarsi via il pezzo tagliato.

Valie Export: "Action Pants: Genital Panic" (1968). Per questa performance, l'artista è entrata in una casa del cinema sperimentale a Monaco indossando pantaloni senza cavallo e una giacca di pelle aderente, con i capelli acconciati in modo selvaggio. Si è aggirata tra le file di spettatori seduti, con i suoi genitali esposti al livello dei loro volti. Sfida il pubblico a interagire con una "vera donna" invece che con le immagini su uno schermo. La performance è stata riproposta a Vienna nel 1969, documentata dalle fotografie di Peter Hassmann. L'azione vuole far riflettere sul ruolo passivo delle donne nel cinema. "Action Pants: Genital Panic" è stata ripresa e riproposta da Marina Abramović nel 2005 nella mostra Seven Easy Pieces.

Marina Abramović: "Rhythm 0" (1974). Performance in cui Abramović si offriva al pubblico come un oggetto da utilizzare a proprio piacimento. Fu proposta nella galleria Studio Morra di Napoli nel 1974 e durò sei ore. L'opera esplorava i limiti del corpo e la violenza subita dalle donne. La Abramović pose 72 oggetti su un tavolo dichiarando che potevano essere usati su di lei nel modo in cui si desiderava. Le prime ore passarono tranquille, ma col passare delle ore iniziarono a tagliarle via i vestiti e in assenza di opposizione le azioni divennero sempre più violente, fino a provocare tagli, e qualcuno le conficcò le spine di rosa nella pelle. Si arrivò al punto che le fu messa la pistola carica in mano, con il dito posto sul grilletto, cosa che provocò l'intervento del gallerista. Finita la performance, quando la Abramovic torna ad essere persona e non più oggetto, il pubblico si rivela incapace di reggere un confronto con lei lasciando la galleria frettolosamente.

Carolee Schneemann: "Meat Joy" (1964). La performance incarna il concetto di "teatro cinetico" della Schneemann, nel quale i performer si impegnano in movimenti previsti e improvvisati con una serie di materiali disparati. Otto performer, inclusa Schneemann, coperti di vernice, carta e pennelli, strisciavano e si contorcevano insieme, giocando con pesce crudo, carne e pollame. Secondo l'artista, utilizzando il corpo nudo come materiale artistico, ha "esposto e affrontato una gamma sociale di attuali tabù culturali e convenzioni repressive". "Meat Joy" è stata eseguita per la prima volta al primo Festival de la Libre Expression a Parigi nel maggio del 1964. Fu poi ripetuta due volte quell'anno a Londra e a New York.

Mostre storiche: Womanhouse

Womanhouse è stata una mostra rivoluzionaria che si è tenuta a Los Angeles nel 1972. Ideata da Judy Chicago e Miriam Schapiro, co-fondatrici del Feminist Art Program al California Institute of the Arts (CalArts), la mostra ha trasformato una casa vittoriana in un'opera d'arte collettiva che esplorava l'esperienza femminile e criticava i ruoli di genere tradizionali.

La casa era stata arredata e decorata da un gruppo di artiste femministe, ognuna delle quali aveva creato un ambiente che rifletteva la propria visione della vita delle donne.

Tra le stanze più iconiche:

"The Dinner Party" di Judy Chicago: Un'installazione a forma di triangolo con 39 posti a tavola, ognuno dedicato a una donna importante della storia.

"Bedroom" di Miriam Schapiro: Una stanza che celebrava la sessualità femminile e l'erotismo.

"Kitchen" di Judy Gerowitz: Una cucina trasformata in un luogo di oppressione domestica.

"Bathroom" di Rachel Rosenthal: Un bagno pieno di sangue mestruale, che affrontava il tabù della mestruazione.

Durante la durata della mostra di un mese, oltre diecimila visitatori vennero a vedere Womanhouse, che successivamente catturò un pubblico globale attraverso il documentario sulla progetto della regista Johanna Demetrakas. L'installazione ha continuato a ispirare numerose opere d'arte in tutto il mondo e ha contribuito a cambiamenti significativi nella stessa natura dell'arte e ad ampliare le conversazioni su quali materiali siano considerati adatti per l'espressione artistica.

In Italia: "Identità e differenza" (Roma, 1980)

Identità e differenza è stata una mostra di arte femminista tenutasi a Roma nel 1980 presso la Galleria d'Arte Moderna. Curata da Lea Vergine, la mostra ha rappresentato un momento fondamentale per l'arte femminista in Italia, offrendo una panoramica completa delle ricerche artistiche condotte dalle donne in quegli anni.

La mostra riuniva opere di oltre 50 artiste italiane e internazionali, tra cui Carla Accardi, Ketty La Rocca, Marina Abramović, Ana Mendieta, Orlan e Yoko Ono.

Le opere esposte esploravano diverse tematiche legate all'identità femminile, alla sessualità, al corpo, alla differenza di genere e al rapporto con la società patriarcale.
La mostra si articolava in diverse sezioni, ognuna dedicata a un tema specifico: "Identità", "Differenza", "Sessualità", "Corpo", "Storia" e "Utopia".

Carla Accardi, La Tenda

Carla Accardi, Tenda, 1965-1966 | Vernice su sicofoil e struttura in plexiglass, cm 225,5 x 155 x 228. Collezione privata © Carla Accardi by SIAE 2024

Alcune delle artiste e opere più significative:

Carla Accardi: "Tenda" (1965) e "Sicofolle" (1971)

Ketty La Rocca: "Autoritratto con piume" (1974) e "Vestito di carne" (1975)

Marina Abramović: "Rhythm 0" (1974)

Ana Mendieta: "Silueta de sangre" (1975)

Orlan: "Baiser d'artiste" (1977)

Yoko Ono: "Cut Piece" (1964)

Il manifesto "Contro la Biennale di Venezia" (1964)

Il manifesto "Contro la Biennale di Venezia" è stato redatto nel 1964 da un gruppo di artiste italiane, tra cui Carla Accardi, Ketty La Rocca, Romana Loda, Paola Mattioli, Maria Pia Piera, and Mirella Bentivoglio.

All'epoca, la Biennale di Venezia era una delle mostre d'arte più importanti del mondo, ma era caratterizzata da una forte discriminazione di genere.
Le artiste donne erano sottorappresentate sia nelle mostre che nei premi assegnati.
Il manifesto denunciava questa situazione di disparità e chiedeva un cambiamento radicale.

Il manifesto criticava la Biennale per la sua mancanza di attenzione all'arte delle donne.
Le artiste firmatarie si rifiutavano di essere considerate "muse" o "decorazioni" nel mondo dell'arte.
Rivendicavano il diritto di essere riconosciute come artiste a pieno titolo e di avere pari opportunità di esposizione e di critica.

Altre artiste che hanno firmato il manifesto:

  • Anita Pittoni
  • Lella Pollini
  • Grazia Varisco
  • Gina Pane
  • Anna Maria Boetti

Pubblicato il 06/03/2024

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