Manfredo Massironi

La forma, lo sguardo.
Conversazione con Manfredo Massironi

di Nicola Galvan

Nicola Galvan: C’è un momento storico definito, coincidente con il tuo “vero” esordio in ambito artistico, da cui desidero far iniziare il nostro dialogo.
Mi riferisco alla fine degli anni cinquanta, quando la tendenza dell’Informale mostrava un cedimento della sua tensione creativa, e anche la decennale polemica tra i fautori dell’astrazione e quelli della figurazione appariva ormai alle spalle.
Le proposte di una nuova generazione di artisti, concentrati soprattutto a Milano e Roma, conoscevano le prime affermazioni. Il 1959, l’anno che vede la nascita di una rivista come Azimuth, rappresenta idealmente l’inizio degli anni sessanta: è allora che tu invii alla commissione del Premio San Fedele il celebre Cartone ondulato, suscitando una polemica che conduce alle dimissioni uno dei suoi membri...

Manfredo Massironi: Sì, ricordo fu in particolare Lucio Fontana, parte di quella stessa commissione, a sostenere la presenza all’esposizione di quel pezzo. Tuttavia la diatriba che ne seguì, e che ebbe spazio in particolare sulla stampa della nostra città, mi parve già allora assumere un’eco esagerata, alimentata forse da qualche giornalista locale a corto di materiale con cui interessare i lettori.

N.G: Osservando quell’oggetto, in cui il tuo intervento manuale era minimo, vi si può notare una volontà di azzeramento espressivo – la stessa che Piero Manzoni avrebbe condotto verso conseguenze imprevedibili – e allo stesso tempo la riconversione estetica di un materiale comunissimo di origine industriale: un tipo di operazione che, successivamente, rientrerà nelle prassi riconducibili ad alcune delle neo avanguardie. Veniva inoltre accennata, attraverso le peculiarità materiali del cartone e il loro rimaneggiamento, l’attenzione per i problemi legati alla percezione visiva, parte degli interessi teorici del futuro Gruppo Enne.

M.M.: All’epoca ero molto giovane e anche piuttosto sprovveduto. Non credo avessi chiare le implicazioni di significato di quel lavoro. Non avevo nemmeno l’intenzione di dare un seguito a quel tipo di ricerca, ispirata soprattutto dal desiderio di indagare le possibilità di relazione fra materiali diversi. Pur distaccandosene, ritengo che quel tipo di approccio conservasse qualche eredità dell’Informale, non inteso certo nelle sue traduzioni pittoriche, quanto nel suo interesse nei confronti della materia.

N.G: In effetti, al di là della posizione critica da voi assunta nei confronti dell’Informale, è possibile che una serie di esperienze germogliate in quel campo di ricerca abbiano gettato le premesse per talune intuizioni caratterizzanti il lavoro del gruppo Enne. Penso a Lucio Fontana e ai suoi ambienti spaziali, ma anche all’originalità dell’opera di Pinot Gallizio, ideatore sia di uno dei primi esperimenti di opera d’arte collettiva, sia di un’acuta provocazione nei confronti del mercato passata alla storia come Pittura industriale.

M.M.: Certo, questa si traduceva in qualcosa di affine a degli “scampoli” dipinti, venduti poi a metratura, che il mercato stesso non tardò a fagocitare facendoli divenire preziosi oggetti di collezionismo... A questo proposito, ricordo personalmente un’azione compiuta da Jean Tinguely alla Biennale di Venezia, finalizzata a produrre degli inchiostri su carta attraverso una rudimentale stampante, di fronte alla quale si formò, ovviamente, una lunga fila. Di sicuro, esistevano aspetti dell’Informale che trovavamo interessanti e che esercitavano su di noi una certa fascinazione, accanto ad altri che sentivamo dovessero essere superati. Ciò che non amavamo era in particolare una casualità un po’ sgangherata che aveva reso quel tipo di operazione sin troppo accessibile. Infatti, l’eccessiva proliferazione di opere riconducibili all’Informale rendeva ormai difficile isolarne i momenti di qualità.

N.G: C’è un aspetto dialettico che l’arte programmata accoglie alla propria nascita. Da un lato un desiderio iconoclasta di annullamento formale ed espressivo, che prendeva di mira soprattutto la pittura, dall’altro una tendenza propositiva, ispirata dal desiderio di dare alla forma una possibilità nuova. Significativamente, il costruttivismo divenne uno dei vostri riferimenti dichiarati.

M.M.: Lo erano senz’altro anche il concretismo e l’esperienza neoplastica, tanto è vero che ai tempi del Gruppo Enne traducemmo in italiano, pure se in modo un po’ avventuroso, i lavori teorici di Mondrian e del De Stijl. Eravamo risoluti riguardo la necessità di una purificazione del ricercare artistico, dunque la regolarità e l’equilibrio delle superfici di Mondrian non potevano che produrre un effetto sul nostro immaginario. In questa stessa direzione andava il grande interesse verso il costruttivismo e il suprematismo russi, con un’attenzione particolare alle ricerche di Lissitzky e alle loro ricadute sulle scuole d’arte e di design internazionali. Bisogna tenere presente che sino agli anni sessanta quello era un mondo in buona parte ancora da scoprire, al di là di quanto era possibile vedere nelle grandi collezioni pubbliche e private... La nostra adesione a quei risultati, nonostante qualche perplessità dovuta alla componente spiritualista presente a livello teorico, aumentò quando potemmo conoscere più da vicino cose come il Monumento per la terza internazionale di Tatlin, o il padiglione pensato da Mel’nikov per l’Esposizione delle Arti Decorative di Parigi.

N.G: Come già qualcuno ha rilevato, l’impressione è che i “miti” da abbattere fossero per voi principalmente due: la Natura in qualità di riferimento dell’operazione artistica e la figura dell’artista tradizionalmente intesa.

M.M.: Probabilmente non è una lettura errata, certo la mitologia romantica legata al profilo dell’artista era in particolare un bersaglio che ci divertiva, e con essa il sistema in cui l’artista stesso era immerso. Inventammo così delle situazioni poi divenute famose, come la Mostra del pane organizzata nella galleria che avevamo fondato a Padova, e una intenzione destabilizzante aveva anche l’invio delle cosiddette “pitture nere” a manifestazioni come la Biennale d’Arte Triveneta o il Premio Marche. A ben guardare, quelle campiture uniformi di colore, della misura rispettivamente di un metro quadrato e di un metro quadrato in scala uno a dieci, più che costituire un richiamo a Malevič anticipavano certi aspetti teorici dell’arte concettuale.

N.G: Il Gruppo Enne mostrò da subito una vocazione internazionale. Questa volontà di instaurare relazioni con l’esterno scaturiva da una presa d’atto del limitato respiro culturale caratterizzante il contesto d’origine?

M.M.: Prima ancora che il gruppo si formasse, avemmo la fortuna di entrare in contatto con l’ambiente artistico milanese, e dunque con Fontana, con i concretisti Veronesi, Soldati e Rho e con i protagonisti dell’esperienza di Azimut. Questi incontri generarono più avanti la mostra itinerante Arte programmata, promossa nel 1962 da Bruno Munari e realizzata inizialmente nel negozio milanese della Olivetti. Sempre a Milano conoscemmo i futuri esponenti del Group de Recherche d’Art Visuel, allora coinvolti nel gruppo Motus: la novità della proposta ci interessò al punto di creare le condizioni per una loro mostra padovana, divenuta realtà nel 1960 alla galleria Le Stagioni, fondata da Alberto Carrain. Iniziative di questo tipo nascevano con lo scopo di dare un nuovo impulso alla cultura artistica cittadina, che non ci soddisfaceva.

N.G: Leggendo i giornali cittadini dell’epoca si nota una posizione ambivalente, che rispecchiava forse quella più generale del pubblico nei confronti della vostra attività: risultano intrecciati lo sconcerto riguardo una ricerca che non veniva riconosciuta come “arte”, e un atteggiamento di rispetto, che forse veniva suscitato dall’ambizione scientifica delle vostre opere.

M.M.: Ciò che ricordo è che le mostre fatte o direttamente organizzate da noi, segnate da una certa severità nelle scelte, incontravano un interesse limitato, almeno nel numero dei loro visitatori. Certo esisteva un’attrazione nei confronti dei nostri risultati, che coinvolgeva in città persone come il professor Leoni e la moglie Sandra, la quale avrebbe gestito in seguito la galleria “La Chiocciola”, nonché il gallerista Alberto Carrain. Ettore Luccini, che sino al 1960 diresse il Circolo Culturale Il Pozzetto, manifestò un interesse che lo condusse a portare in quella sede la mostra della Nuova concezione artistica, già allestita a Milano alla galleria Azimut, che comprendeva anche opere di Alberto Biasi e mie. Il Pozzetto era in quel momento uno dei luoghi culturalmente più vivaci, sia per i dibattiti lì organizzati che per iniziative come quella relativa alle nuove sperimentazioni sonore, a cui aveva partecipato anche John Cage. La vivacità era forse eccessiva: la sua chiusura avvenne dopo la mostra che ci riguardava.

N.G: Mi incuriosisce come molti dei protagonisti dell’arte programmata giungessero come voi da realtà geografiche distinte rispetto ai grandi centri. Potevano provenire da Udine, dall’est europeo...

M.M.: ... e anche dal Belgio, dall’Olanda, dalla Svizzera... si aveva l’impressione che un po’ in tutto il mondo si verificassero delle aperture legate a questa dimensione espressiva. Fu in questa prospettiva importante il contatto tra personalità e gruppi fisicamente lontani garantito dall’attività di personaggi quali Matko Meštrović o Almir Mavignier. Credo che in centri come New York fosse più forte l’assedio delle tendenze dominanti, ma è anche vero che è esistita una sorta di “periferizzazione” che varrebbe la pena indagare.

N.G: Anche gli Stati Uniti vennero però in seguito “conquistati” dalle opere ascrivibili a ciò che si era soliti chiamare allora Nuova Tendenza.

M.M.: Si trattò in realtà di una affermazione piuttosto effimera. Venne suscitata una contrapposizione tra Op e Pop Art, che si risolse decisamente a favore di quest’ultima, penso anche per effetto di una qualche decisione di ordine politico economico.

N.G: Intendi dire che si preferì sostenere una corrente artistica che fosse culturalmente rappresentativa di quel paese?

M.M.: Ritengo possibile l’esistenza di una “richiesta” avente quale obiettivo il successo di un’arte identificabile come americana.

N.G: Hai poc’anzi parlato di Optical Art, una delle tante definizioni create per indicare il percorso artistico a cui hai partecipato, denominato anche arte cinetica, ricerca visuale...

M.M.: Al proliferare delle definizioni contribuì probabilmente la capacità promozionale di Bruno Munari. Ad esempio, oltre a spingere affinché la mostra Arte programmata venisse fatta nei negozi dell’Olivetti, fu lui ad insistere perché riportasse quel titolo, divenuto poi la sigla sotto la quale era possibile far rientrare un po’ tutta la tendenza. A proposito di definizioni, ve ne fu una che assunse un carattere spregiativo, e che coniò mi sembra Emilio Vedova, il primo a chiamare “macchinette” alcuni degli oggetti da noi realizzati. D’altronde, la collaborazione occasionale con un’azienda come la Olivetti aveva attirato delle critiche da quella stessa sinistra a cui, almeno in termini genericamente ideologici, eravamo vicini.

N.G: Quale, tra tutte quelle definizioni, ritieni descriva meglio il percorso da te condotto, e quale se ne allontana di più? Penso che il cinetismo in senso letterale, riferito ad un movimento reale degli oggetti, sia stato forse meno investigato da parte tua e dal gruppo a cui eri legato.

M.M.: Era il concetto generale di movimento ad attrarre la nostra attenzione, anche perché ci sembrava rappresentasse una possibilità che dopo il Futurismo non era più stata colta. Ognuno di noi ha prodotto dei risultati anche affascinanti nella direzione cui ti riferisci, poi proseguita in particolare dal Gruppo T di Milano, ma dovevamo affrontare un problema per niente secondario come quello dei costi comportati dalla realizzazione e dalla manutenzione di quei meccanismi. Certo in quel periodo nessuno di noi viveva nell’agiatezza, come potrebbe testimoniare la corrispondenza intercorsa tra noi e il padrone dei locali dove si svolgeva la nostra attività, in perenne attesa dei soldi dell’affitto... Aggirando un po’ il problema delle definizioni, posso comunque affermare che a interessarmi di più nel contesto di quella ricerca era il versante para o post costruttivistico. Il costruttivismo “storico” continua ancora oggi a sorprendermi, alla luce della riscoperta delle tante personalità, molte delle quali femminili, che vi avevano contribuito.

N.G: Quali possono essere le eredità della ricerca cinetico visuale, una volta che si esaurì la sua stagione più produttiva? Quale la sua eventuale attualità?

M.M.: Aver introdotto sistematicamente la psicologia della percezione nelle nostre indagini visive rappresenta un risultato importante, che ha mostrato anche in seguito una grande ricchezza di spunti. Era implicito che le nostre realizzazioni conoscessero il loro completamento nell’osservatore, poiché senza il suo ruolo attivo l’opera non si poteva dire conclusa. Essa è il risultato di un’operazione materiale e al tempo mentale.

N.G: Dunque la conseguenza di maggiore rilievo è stata la modifica dello statuto dell’osservatore?

M.M.: È da allora che chi osserva viene riconosciuto come “fruitore”. Mi sembra qualcosa da cui non si è più tornati indietro.

N.G: Anche la figura dell’artista non è stata più la stessa. Voi preferivate essere chiamati “operatori”, e forse chi è attivo oggi nell’arte contemporanea a livello professionale può davvero essere ritenuto un operatore nel campo dell’immagine. Il suo è un confronto consapevole con il sistema in cui lavora e vive, le sue dinamiche sociali, il suo immaginario visivo, le sue innovazioni tecnologiche e materiali. Oggi però, gli è anche peculiare una maggiore disinvoltura nei confronti del mercato dell’arte, i cui meccanismi sembrano essere stati usati in modo spregiudicato, ad esempio, da diversi artisti anglosassoni.

M.M.: Dal punto di vista ideologico, questa mitridatizzazione dell’artista da parte del mercato è uno sviluppo molto lontano dalle posizioni da noi assunte. Dal punto di vista formale, noto come il desiderio, anche ingenuo, di meravigliare il pubblico – aspetto che poteva appartenere alla nostra esperienza creativa – sia mutato nella necessità del suo sconvolgimento attraverso l’esibizione, spesso sadica, del repellente: è ciò che Lea Vergine ha indicato come Irritarte. La categoria del “bello” è probabilmente da tempo inservibile nel campo delle arti, ma personalmente queste ricerche attirano di rado la mia curiosità, anzi, in alcuni casi le trovo difficilmente sopportabili. Sento piuttosto di rivendicare un mio diritto alla regolarità e alla rigorosità del ricercare, diciamo pure al bello… Mi sfuggono peraltro i principi in base ai quali certi valori economici legati alle opere, davvero elevatissimi, possano essere calcolati.

N.G: Getulio Alviani ha titolato significativamente Arte esatta una delle mostre da lui organizzate sugli artisti delle tendenze cinetico visuali. L’espressione lascerebbe intendere una misurabilità dei risultati ottenuti, sulla base delle problematiche visive verificate dalle opere. Vorrei sapere se questo particolare sguardo sulla vostra ricerca era condiviso anche allora.

M.M.: Arte esatta è una formula stimolante, che proviene da uno dei protagonisti più attivi di quella stagione, tra coloro fra l’altro che sono ben lungi dal considerarla esaurita. Tuttavia non credo abbia lo stesso significato della dicitura di comodo “scienze esatte”, dacché l’esattezza non esiste più nemmeno in matematica. Con la scienza vera e propria, peraltro, i nostri lavori presentavano il più delle volte delle semplici assonanze, e poteva capitare tentassero di conferire forma concreta a concetti invece puramente mentali, quale poteva essere la geometria non euclidea. Ad ispirare quella definizione deve essere stata in parte una consapevolezza successiva, mirata a contrapporre la precarietà di una valutazione basata sullo shock visivo – propria del contesto espressivo cui abbiamo prima accennato – ad una fondata sulla reattività dello spettatore, e sulla sua capacità di ricostruire un processo di ricerca interno all’opera. Un’opera razionalmente verificabile, quindi, non un manufatto di ingegneria.

N.G: Desidero ricordare alcune righe scritte da Giulio Carlo Argan nel 1976, nel tentativo di riassumere la vostra esperienza e i motivi delle sue possibili sconfitte: «Il sabotaggio dei gruppi fu istigato dai mercanti, ma è anche vero che le poetiche d’equipe screditavano il mito della personalità dell’artista e le negavano il vantato diritto all’arbitrio. L’idealismo ancora e sempre imperante poteva ammettere il raptus gestuale ma non il progetto elaborato, la materia appena manipolata ma non il grafico e il diagramma, il segno ma non il disegno. Con l’Informale la critica, per quanto ricusata, conservava un senso di gara verbale con l’opera mentre con la corrente visuale–cinetica veniva integrata nella disciplina operativa del progetto, come verifica metodologica e necessario raccordo tra cultura visualizzata e verbalizzata, ciò che la privava dell’irrinunciabile licenza di non pensare».

M.M.: La dissoluzione dei gruppi fu dovuta a diversi fattori, certo l’ingresso del mercato creò una competizione che finì per restringere lo spazio di manovra dei vari operatori. È vero che la critica non ebbe poche responsabilità nel fallimento del loro progetto. Argan fu tra i pochi a compiere lo sforzo di comprendere realmente le implicazioni del nostro lavoro, il quale generalmente subiva una lettura superficiale. Il manifestarsi di tendenze quali l’Arte Povera o, più tardi, la Transavanguardia, giunse come momento di liberazione per la critica, dato che il ragionamento interpretativo poteva farsi più libero e ampio.

N.G. Sintetizzando con un po’ di approssimazione i diversi passaggi del tuo lavoro, allo scopo di giungere alla tua attività individuale, diciamo che con il Gruppo Enne è stato primariamente affrontato l’oggetto, compreso il suo aspetto progettuale; poi è venuto il momento della realizzazione di veri e propri ambienti, che coinvolgevano il fruitore anche dal punto di vista prettamente fisico. Quindi, al di fuori del Gruppo, vi è stata una riscoperta non solo dell’oggetto, ma anche del quadro-oggetto, cogliendone i valori puramente estetici, quali la superficie e il colore.

M.M.: È una ricostruzione sostanzialmente corretta, anche se io tendo a vedere anche ora una continuità tra le ricerche sviluppate in gruppo e quelle successive. Anche allora ero interessato a partire dalle consuetudini visive legate all’idea di “quadro” per turbarne poi le modalità, utilizzando soluzioni come ad esempio la trasparenza che, oltre a dare pregnanza allo spazio vuoto, sottolineava la possibilità di vedere l’opera da più lati, dato che non ne esisteva uno privilegiato. Sono procedimenti che ho ripreso anche nella mia esperienza fuori dal gruppo. Non ho mai avuto però resistenze particolari al colore, come credo di non averne verso alcuna conseguenza formale, a patto che a giustificarla sia la direzione assunta dalla ricerca che si è deciso di seguire, e con essa le aperture dischiuse dalla sua elaborazione teorica.

N.G: Un altro aspetto che mi sembra abbia conosciuto una sottolineatura nel tuo lavoro successivo è quello costituito da una componente che potremmo definire seriamente ludica.

M.M.: Anch’essa in realtà esisteva nella precedente attività di gruppo, credo costituisse anzi una delle sue potenzialità. Probabilmente è un aspetto che tendo a rivendicare con più decisione rispetto ai miei compagni. Se il gruppo esistesse ancora oggi, cosa piacevole a pensare, il gusto per il “gioco” sarebbe stato qualcosa che, in virtù di uno spirito diverso, avremmo potuto mettere meglio a profitto. Non a caso, ritornando per un istante a riflettere sull’arte del presente, tendo ad avvertire una maggiore sintonia con artisti come Maurizio Cattelan o altri che, come lui, sanno offrire soluzioni non prive di una certa ironia. C’è da aggiungere che a volte il contenuto ludico può infastidire le forme istituzionali dell’arte anche in misura superiore rispetto a un discorso, in apparenza, più radicale o complesso.

N.G: Di cosa avverti dunque la mancanza riguardo al lavoro d’equipe? Cosa ti piaceva in particolare, forse la rinuncia deliberata a quella sorta di egocentrismo che solitamente si accompagna alla figura dell’artista?

M.M.: Non solo ero favorevole alla nascita dei gruppi e alla loro diffusione, ma ho sempre ritenuto che la loro sia stata un’esperienza ingiustamente breve: a mio avviso vi erano le possibilità di una maturazione estetica e concettuale delle cose che facevamo. Per me il gruppo rappresentava uno strumento per capire di più... Amavo l’idea della collaborazione: il fatto di mettere le idee in comune e farle circolare mi ricorda la ritualità di certi pasti tribali, in cui le pietanze ruotano e puoi incontrare sempre un sapore diverso.

N.G: Penso che nelle tue opere recenti emerga con più evidenza il tentativo di concretizzare in forme sensibili forze e fenomeni inavvertibili alla percezione. Mi viene alla mente la serie dei Capolavori.

M.M.: Quello è un tipo di ricerca dove emerge, sin dal titolo che implica dei possibili giochi di parole – lavori del capo, ndr – quel gusto ludico a cui si accennava, ma è vero che una delle sue implicazioni è quella di rendere manifesta la forza di gravità. Più in generale, sono da sempre interessato a visualizzare attraverso l’opera i processi del pensiero.

N.G: Sono implicazioni che hanno qualche analogia con l’Arte Povera, almeno nelle sue declinazioni più concettuali...

M.M.: Ma io trovo interessanti alcuni risultati di quella corrente, anche se probabilmente sono più attratto dall’arte concettuale in senso vero e proprio.

N.G: Appese attorno a noi ci sono in questo momento alcune tue opere significative, appartenenti a periodi antecedenti e successivi al lavoro con il Gruppo Enne. Le recenti Piegature leggere e la più lontana Struttura con filo condividono una poetica legata allo spazio vuoto: circoscritto, strutturato o modellato dagli elementi materiali utilizzati.

M.M.: Il vuoto, come del resto il silenzio, è materia di lavoro. Nel mio caso forse la principale. Penso a quante sfere per negativo ho tentato di fare… Probabilmente ne è conferma anche la mia curiosità per i semilavorati grezzi degli oggetti più comuni, elementi cioè che presentano una incompletezza o una mancanza che degli oggetti stessi esibisce la storia, il divenire.

N.G: Anche le cornici sembrano aver assunto nel tuo lavoro una ricchezza concettuale.

M.M.: Sì, anche se il lavoro di cui sono esplicitamente protagoniste, ovvero la serie delle Scornici, presenta un pieno, che in realtà dipende dalle cornici stesse, il cui “sconfinamento” invade quella che, un tempo, sarebbe stata la superficie della rappresentazione pittorica.

N.G: Insidiata anche altrove: nel caso delle Doppie piegature questa azione viene compiuta dal retro del quadro, parzialmente ribaltato sulla superficie frontale. Riassumendo, talune affermazioni estetiche passano per la modalità della negazione, al modo del celebre «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» dichiarato in versi da Montale... vedo alle mie spalle una piccola opera inedita su carta, costituita da ripetute interpretazioni grafiche della parola “no”.

M.M.: Il suo titolo è Breve esercizio di disobbedienza, effettivamente può riassumere questa chiave di lettura, che mi diverte parecchio, e nella quale mi trovo a mio agio.

N.G: Se buona parte della tua produzione creativa si presenta come uno strumento di attivazione del pensiero, assumendo la neutralità di un’evidenza fenomenologica, allora il sistema delle negazioni si rivolge ipoteticamente anche alla metafora, all’analogia, ai modi cioè più diffusi di leggere l’opera d’arte.

M.M.: La tuo logica è impeccabile. Ma nella realtà vissuta sembra non esistere nemmeno la neutralità dell’evidenza fenomenica. Ogni cosa per quanto inerte può essere sottoposta ad una interpretazione di tipo metaforico. Tra questa e una di ordine letterale credo le mie opere preferiscano assumere una posizione volutamente ambigua, come tenessero idealmente aperta la possibilità di scegliere in ogni momento entrambe le direzioni. Quella della metafora è una figura retorica che a mio avviso si adatta bene a correnti quali l’Arte Povera, ma se ritorniamo ad elementi come il ludico e l’ironico, dobbiamo riconoscere come questi funzionino efficacemente quando la possibilità metaforica non risulti evidente o scoperta.

N.G: Anche il depistaggio nei confronti dello spettatore, riguardo i meccanismi formali insiti nell’opera, sembra essere un procedimento importante nella tua attività individuale, forse parte ancora dell’aspetto ludico più volte ricordato.

M.M.: Una fase di ricerca che può legare assieme queste ultime riflessioni è probabilmente quella dei Nodi, costruiti sulla base di una struttura geometrica sottostante molto rigorosa che si articola secondo diverse varianti, a cui è poi difficile risalire attraverso lo sguardo. Ma il nodo, tramite l’emersione di implicazioni quali il legame, la molteplicità, è qualcosa che può dare vita a un ambiente vasto di metafore. Per affinità, mi viene alla mente un libro come La piega, che Gilles Deleuze scrisse partendo da pensiero di Leibniz: in esso, ragionando sul concetto indicato dal titolo, venivano a generarsi quelli di dispiegamento, spiegazione e così via. In sintesi, proprio i lavori legati al nodo offrono un versante metaforico e uno letterale, “rigido”, geometrico.

N.G: Nel corso degli anni, il piano scientifico e quello sperimentale, che hai approfondito come ricercatore e docente nell’ambito della psicologia della percezione, si sono sovrapposti a quello espressivo. Mi chiedo quale sia la specificità di quest’ultimo, se cioè la forma e il colore abbiano ricoperto un ruolo che la parola o la pura dimostrazione grafica non riuscivano ad assolvere in pieno.

M.M.: La considerazione che mi viene più spontaneo fare è che sembra connaturato all’essere umano sentirsi incompleto e insoddisfatto riguardo a tutto ciò a cui si dedica. Cronologicamente, è stata l’esperienza legata alla forma a condurmi verso quel tipo di interesse scientifico, e anche quando questa ha pervaso meno il mio tempo lavorativo, non ho mai smarrito il desiderio di scoprire nelle mie ricerche una possibilità di ordine estetico: non riesco a stabilire se sia trattato di un semplice completamento, forse i problemi di ordine percettivo da me affrontati richiedevano anche quel tipo di spiegazione. In termini più generali, ritengo non sia saggio rinunciare a vedere un determinato concetto in più modi, sempre che questo ne offra le condizioni.

N.G: Credi il tuo ambito di studi sia da considerarsi infinito?

M.M.: Sono convinto lo sia, come ogni campo di ricerca. Esistono fenomeni celebri e a lungo studiati, che tuttora richiedono di essere esauriti nella loro spiegazione. L’illusione di Müller-Lyer, una semplice figura costituita da due segmenti uguali, percepiti di lunghezza differente in virtù dell’apposizione, ai loro margini, di due coppie di segmenti diversamente orientati, risale al diciannovesimo secolo. Pur risultando evidente il suo funzionamento formale, nessuno ha potuto spiegare in modo definitivo il motivo per cui la mente compia quel tipo di lettura, né indicare il campo di conoscenza in grado di fornire questa risposta.

settembre 2008

Ultimo aggiornamento: 27/10/2022

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