Giacomo Matteotti. Vita e morte di un padre della democrazia

  • Quando:   01/03/2024 - 16/06/2024
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Giacomo Matteotti. Vita e morte di un padre della democrazia

In occasione del centenario della morte, il percorso umano e politico di Giacomo Matteotti viene celebrato da una grande mostra, ospitata dal 1° marzo al 16 giugno al Museo di Roma a Palazzo Braschi.

L'esposizione "Giacomo Matteotti. Vita e morte di un padre della democrazia" ripercorre la vita del leader socialista, deputato e segretario del Partito Socialista Unitario (Psu), dagli esordi giovanili all'affermazione nazionale, dalle battaglie per la democrazia all'opposizione al fascismo, di cui aveva compreso fra i primi la natura totalitaria, fino al brutale omicidio perpetrato dal regime mussoliniano.

Con la profonda dignità e l'alto senso civico dimostrati in un tragico momento della nostra storia, Matteotti è diventato l'archetipo dell'avversario tenace e incorruttibile del fascismo. Un esempio il suo, animato da un solido imperativo morale e da un forte slancio civile, che ancora interroga la vita politica e culturale del nostro Paese.

La mostra, promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, a cura di Mauro Canali con la direzione e il coordinamento generale di Alessandro Nicosia, è organizzata e realizzata da C.O.R. Creare Organizzare Realizzare con l'Associazione culturale Costruire Cultura, con il supporto organizzativo di Zètema Progetto Cultura, sotto il patrocinio del Ministero della Cultura, con la presenza di Banca Ifis in qualità di main partner, con il contributo di Camera di Commercio di Roma e la partecipazione di Archivio Storico Luce, Rai Teche, Fondazione Pietro Nenni e AAMOD – Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico.

La mostra si pregia, inoltre, degli importanti prestiti di Fondazione Pietro Nenni, Archivio di Stato di Roma, Archivio Centrale dello Stato, Archivio Storico della Camera dei Deputati, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Accademia dei Concordi, Archivio Marco Steiner.... leggi il resto dell'articolo»

Forte dell'autorevolezza delle istituzioni coinvolte e ricca di materiali inediti, la rassegna annovera documenti originali – con particolare riferimento agli atti istruttori e giudiziari, mai mostrati in precedenza, che sostanziano il percorso interpretativo – tra fotografie, manoscritti, oggetti, libri d'epoca, articoli di giornali e riviste, filmati e documentari, opere d'arte, sculture, ceramiche, quadri, nonché brani musicali dedicati al leader politico.

L'esposizione è suddivisa in quattro sezioni, che ripercorrono la vita di Matteotti e il drammatico passaggio dallo Stato liberale alla dittatura fascista.

La sezione Il giovane Matteotti registra l'impegno in Polesine a favore di braccianti e mezzadri, la carriera accademica, l'attività pubblicistica per "La Lotta", l'adesione al Partito Socialista.

Quella sull'Impegno politico nazionale 1919-1924, ne distingue l'attività parlamentare, l'azione politica contro il fascismo, considerato da subito un pericolo mortale per le istituzioni democratiche, e gli squadristi, intesi quale "guardia bianca" degli interessi agrari e dei "collaborazionisti", in seno al neonato Psu di cui è segretario.

La sezione Sequestro e morte 1924-1926, partendo dall'affermazione alle elezioni del 1924 del Psu quale partito più forte della sinistra, include il celebre discorso del 30 maggio 1924 in Parlamento contro i brogli e le violenze dei fascisti, fino al sequestro di cui fu vittima il 10 giugno 1924 a Roma, all'assassinio, al ritrovamento del cadavere il successivo 16 agosto e al processo-farsa di Chieti.

Infine la sezione Il mito di Matteotti, focalizza il lascito fattuale e ideale del politico, dalle commemorazioni alle Brigate Matteotti fino alla perdurante residenza nell'immaginario collettivo perché, come lui stesso ebbe a dire: "Uccidete me, ma l'idea che è in me non la ucciderete mai... La mia idea non muore".

L'intento della mostra è quello di restituire al grande pubblico il valore di uno dei padri della nostra democrazia e di far conoscere alle nuove generazioni, con approfondimenti multimediali, iniziative formative e linguaggio immediato, un politico e intellettuale di notevole valore.

"Giacomo Matteotti. Vita e morte di un padre della democrazia" è corredata dal catalogo edito da Treccani che, recependo contributi iconografici inediti e preziose testimonianze, contempla origini, attività ed epilogo di un martire dell'antifascismo votato alla libertà.

Saggio curatoriale di Mauro Canali, Curatore della mostra

Nella storia di un Paese raramente è dato incontrare un unico evento che abbia condizionato così profondamente i suoi sviluppi successivi come accadde per l'Italia con l'assassinio di Giacomo Matteotti. Di fatto, il delitto precipitò il Paese in una crisi così drammatica che Mussolini, per evitare di esserne travolto, intraprese la via della dittatura, abbattendo lo Stato liberale e avviando la costruzione del regime a partito unico. Quest'anno ricorrono i cento anni da quel barbaro cri mine. La mostra che gli viene dedicata, dal titolo Giacomo Matteotti. Vita e morte di un padre della democrazia, ripercorre, con materiale documentale e iconografico per lo più inedito, la vita breve e intensa del deputato socialista, dai suoi esordi politici giovanili fino alla sua tragica uccisione. Illustra inoltre come, durante il Ventennio fascista, i suoi amici e compagni, Turati, Treves, Salvemini, Modigliani, insieme a migliaia di esuli costretti a lasciare il Paese per evitare la galera, s'impegnarono all'estero a mantenere viva l'eredità politica e morale del martire, e come Matteotti non fu mai dimenticato nep pure da chi, in Italia, era ormai ridotto al silenzio. Anche dopo la morte, Matteotti ha continuato a ispirare tutte le battaglie contro il fascismo e le dittature, mentre il richiamo al suo sacrificio ha ormai assunto il valore di un monito contro le insidie di autoritarismi vecchi e nuovi, e lo ha reso inseparabile dai valori di democrazia e libertà della nostra Costituzione nata dalla Resistenza e dalle ceneri del fascismo.

Quando Matteotti si affacciò sul proscenio nazionale della politica, il Paese, benché uscito da una guerra terribile per costi umani e materiali e scosso da crisi provocate dall'inflazione e dal difficoltoso reinserimento dei reduci nella vita civile, sembrava tuttavia in grado d'intraprendere un sia pur lento e difficile processo di normalizza zione. Il passaggio obbligato era rappresentato dalle invocate riforme delle originarie istituzioni di stampo elitario e liberale, che dovevano consentire al Paese di aprirsi alle richieste di chi aveva contribuito alla guerra vittoriosa, di chi, tornato dalle trincee, reclamava ciò che era stato pro messo dalle classi dirigenti alla partenza per il fronte.

Le fabbriche erano investite dai conflitti sociali, in quanto la militarizzazione del sistema produttivo, con il conseguente divieto del ricorso agli scioperi, aveva di fatto impedito per tutta la durata del conflitto la normale dialettica del confronto- scontro sociale, con il mancato adeguamento dei salari al crescente costo della vita. Nelle campagne, con braccianti e contadini poveri ancora in attesa di una riforma agraria che tar dava a venire, era iniziato il vasto fenomeno della occupazione spontanea delle terre incolte, mentre dirigenti socialisti e capi lega spingevano per nuovi e più equi patti agrari e colonici. Il cosiddetto 'biennio rosso', tra il 1919 e il 1920, era stato dunque una forte spinta dal basso di operai, conta dini e braccianti per una più giusta redistribuzione delle terre e per un riallineamento del potere d'acquisto di salari e stipendi depressi dal periodo bellico.

Le elezioni politiche del novembre 1919, le prime a suffragio universale, erano state lo specchio dei fermenti che percorrevano il Paese. Ne erano usciti nettamente vittoriosi il partito socialista e quello popolare di don Sturzo di ispirazione cattolica, che avevano meglio interpretato le profonde spinte al rinnova mento provenienti dalle masse. Nel Polesine povero e analfabeta, Matteotti, del tutto immerso nella lotta politica, si era da tempo posto alla testa di quelle rivendicazioni.

Le sue capacità organizzative gli avevano consentito di assumere presto un ruolo di rilievo in seno al movimento socialista polesano e d'imporsi come un dirigente preparato, esperto di bilanci, amministratore onesto e capace. Giacomo era il secondo di tre figli maschi – Matteo il più grande e Silvio il più giovane – di una famiglia di origini trentine. Già agli inizi del secolo, i Matteotti, proprietari di vasti appezzamenti di terreni e di poderi, erano considerati tra le famiglie più agiate del Polesine.

Giacomo aveva aderito giovanissimo al partito socialista, si era laureato a Bologna nel 1907 in diritto penale, e, pur tentato sulle prime d'intraprendere la carriera universitaria, aveva finito per cedere al richiamo della politica. Diversamente dai leader sociali sti della precedente generazione, aveva preso a viaggiare in Europa molto presto, formandosi una cultura cosmopolita, aperta agli influssi del più maturo socialismo nordeuropeo. Collaboratore assiduo del settimanale di Rovigo «La Lotta», eletto più volte al consiglio provinciale, nel 1914 lo troviamo a organizzare manifestazioni di protesta contro l'arrivo a Fratta Polesine di lavoratori agricoli reclutati in altre pro vince dagli agrari locali allo scopo di sostituire i braccianti polesani in sciopero. In quella occasione viene denunziato per «attentato alla libertà del lavoro», ma di lì a poco amnistiato (C. Lazzari, Come si facevano una volta i buoni socialisti, «Almanacco Socialista», 1925).

Ancora prima della guerra, era venuto perciò stabilendosi tra il giovane Giacomo e gli agrari polesani uno stato di aperta e dichiarata belligeranza. L'odio degli agrari nei suoi confronti era profondo. Lo accusavano di aver tradito la propria classe, quella dei proprietari di terre, schierandosi a difesa della classe antagonista, quella dei braccianti e dei proletari della campagna. Poi, giunse a inasprire vieppiù i rapporti il suo impegno durante il 'biennio rosso', quando, già deputato, egli sostenne, dal seggio in Parlamento, ma spesso recandosi anche sui luoghi dei conflitti, tutte le lotte contadine per il rinnovo dei contratti agrari. A rendere complicata la prospettiva politica della sinistra italiana vi era stata, nel 1917, la Rivoluzione russa, con la conquista del potere da parte dei bolscevichi. Il fascino che quell'evento rivoluzionario prese a esercitare sulle masse operaie, anche in Occidente, fu enorme.

La rivoluzione sociale usciva dalla sfera delle utopie e delle astrazioteoriche, dov'era stata fino ad allora relegata, mostrando al mondo che essa era possibile, che le masse diseredate potevano abbattere il potere della borghesia guerrafondaia e costruire il loro Stato socialista. Era venuta così imponendosi in molte delle élite socialiste la pericolosa illusione di poter indirizzare le lotte che nascevano sul terreno delle rivendicazioni economiche verso l'obiettivo politico dell'ab battimento dei regimi capitalistici. In seno a tutti i par titi operai vennero perciò costituendosi frazioni estreme avverse al socialismo riformista e per la conquista immediata e violenta del potere, che finiranno poi per staccarsi dal vecchio tronco socialista e fondare i vari partiti comunisti riuniti in una III Internazionale diretta da Mosca. Particolarmente forte, più che in altri partiti socialisti europei, fu l'impatto che l'evento rivoluzionario bolscevico ebbe sul socialismo italiano.

Da diversi anni, la vita interna del PSI era scossa da conflitti tra la minoranza riformista di Turati e Treves e la maggioranza massimalista. Mentre quest'ultima si era schierata decisamente contro l'ingresso dell'Italia in guerra, la prima si era mostrata più comprensiva verso le ragioni dell'intervento. Ne era scaturito un compromesso molto precario, riassunto in un curioso slogan coniato dall'allora segretario del partito Costantino Lazzari, «né aderire né sabotare», che la diceva lunga sulla confusione che la guerra aveva ingenerato in campo socialista, e che rappresentava in maniera evidente la parte emergente di un conflitto ideologicamente più ampio, che si sarebbe concluso solo qualche anno dopo, quando dal tronco originario del vecchio PSI si sarebbero venuti a costituire due partiti, a sinistra, nel gennaio 1921: quello comunista, sotto la spinta dei torinesi gramsciani di «Ordine nuovo» e dei bordighiani napoletani, e, più tardi, nell'ottobre 1922, con la scissione a destra dell'ala riformista, il PSU, il Partito socialista unita rio, diretto dal trentasettenne Giacomo Matteotti.

Nel periodo prebellico e bellico, Matteotti si era distinto per un suo antimilitarismo particolarmente acceso, in cui esprimeva paradossalmente posizioni più vicine a quelle radicali dell'estrema sinistra che a quelle dei suoi più tiepidi compagni riformisti. In un articolo uscito sulla rivista turatiana «Critica sociale», egli aveva sostenuto addirittura il ricorso all'insurrezione qualora il governo avesse mostrato di voler condurre il Paese alla guerra. Venne anche condannato a un mese di carcere per 'grida sediziose' quando, a Rovigo, in pieno consiglio provinciale, aveva urlato il suo internazionalismo e la condanna inappellabile della guerra. Davanti al magistrato non aveva esitato a ribadire che «se il partito socialista avesse ordinato di fare la rivolta, sarebbe stato il primo ad andare nelle campagne a provocarla» (C. Lazzari, op. cit.).

Quando era stato richiamato alle armi, tali posizioni estreme avevano indotto le autorità militari a tenerlo lontano dal fronte, assegnandolo per tutto il periodo bellico a Campo Inglese, un piccolo presidio militare vicino Messina. Si avverte nella sua radicale opposizione alla guerra una vena di filotriplicismo, di simpatia per l'Austria. L'aveva allora avvertita anche Gobetti, quando aveva definito le posizioni del giovane Matteotti vicine alle tesi filotripliciste e antifrancesi espresse da Mario Missiroli in una lettera pubblicata da Mussolini nel fascicolo del 15 agosto-1° settembre 1914 della rivista «Utopia». Un filo triplicismo che trova eco in una sua lettera alla fidanzata Velia Titta, in cui ribadiva l'ipotesi di una risposta insurrezionalistica del partito «se si volesse con assai poca lealtà lanciarci in una guerra contro l'Austria» (G. Matteotti, Lettere a Velia, a cura di S. Caretti, Nistri-Lischi, Pisa 1986, pp. 68-69).

Per completare la complessa situazione psicologica in cui si dibatteva Matteotti nei riguardi della guerra, vi è da aggiungere che Velia, divenuta sua moglie nel gennaio 1916, aveva stretti legami di parentela con una famiglia di origine boema, gli Steiner. Fosca, la sorella di Velia, aveva infatti sposato Emerich Steiner, un boemo naturalizzato italiano, al quale Matteotti era legato da pro fonda amicizia, mentre un'altra sorella di Velia, Settima, era sposata a Guglielmo, fratello di Emerich. In Italia viveva inoltre un terzo fratello, Max, che, allo scoppio della guerra, era stato internato in Sardegna. Infine, i tre Steiner ave vano altri due fratelli, ufficiali dell'esercito austro-ungarico, che stavano combattendo sul fronte italiano. Matteotti era dunque odiato dalle forze nazionaliste che avevano preso da tempo a considerarlo una sorta di 'nemico interno'. Per loro, egli era il «socialmilionario», il «paron Matteotti», ma soprattutto «l'austriacante». Più volte gli venne gridato di andarsene a Vienna, provocazioni alle quali Matteotti repli cava con il suo eloquio scarno e tagliente. Matteotti aveva mostrato, sin dal suo ingresso in politica, uno spiccato interesse per le questioni di ordine economico e finanziario.

Nella sua attività in provincia di Rovigo, come sindaco di Villamarzana e consigliere provinciale, si era caratterizzato come un amministratore rigoroso, attento al pareggio dei bilanci e avverso alle spese prive della copertura, sempre pronto tuttavia a sostenere, attraverso una politica equilibrata delle imposte locali, opere pubbliche dirette a incrementare l'edilizia scolastica e i trasporti municipali, e a favorire, attraverso una politica daziaria oculata, le attività delle cooperative popolari. I suoi spiccati interessi per le questioni economiche e finanziarie indussero la direzione nazionale del partito socialista a chiamarlo a ricoprire la carica di segretario della Lega dei comuni socia listi. Al congresso della Lega, tenuto a Milano nell'ottobre 1919, egli aveva avanzato una proposta di riforma dei tri buti locali che avrebbe consentito alle amministrazioni una maggiore autonomia tributaria rispetto alle prerogative erariali. Si trattava di una questione destinata a rap presentare uno dei punti più qualificanti della sua futura attività di parlamentare. Egli indicava nella soppressione dei massimi di tassazione della tassa di famiglia uno strumento in grado di rendere più equo il prelievo fiscale sulla ricchezza privata e d'introdurre allo stesso tempo il principio di un fiscalismo progressivo e tendenzialmente espropriativo.

L'elezione alla Camera dei deputati del mese successivo era stata la testimonianza dell'apprezzamento del suo lavoro da parte dei vertici e della base del partito. Anche in Parlamento venne chiamato a ricoprire importanti incarichi di carattere economico-finanziario nella Giunta generale del bilancio, nella Commissione finanze e tesoro e nella Commissione consultiva per la riforma dell'amministra zione dello Stato, di cui fu segretario e membro attivissimo nella redazione del documento di minoranza.

Venne chiamato dal suo partito a illustrare le relazioni di minoranza sullo stato di previsione dei vari esercizi finanziari, presentati dai governi che si succedettero tra il 1919 e il 1924 alla guida del Paese. L'ultima sua fatica in tal senso furono i tre quesiti che presentò alla Giunta generale del bilancio, presieduta da Antonio Salandra, nella seduta del 5 giugno, pochi giorni prima di venire ucciso, con i quali poneva in risalto le menzogne del governo Mussolini, il quale aveva presentato in sede parlamentare un bilancio preventivo in pareggio che all'esame attento di Matteotti si presentava con un forte disavanzo, non coperto dalle adeguate entrate. Matteotti aveva conosciuto presto la violenza squadristica del fascismo. La sua provincia era stata tra le prime nell'area padana a vedere la nascita di un fascio di combatti mento, che non aveva tardato a stringere con gli agrari locali un'alleanza operativa cementata dall'opportunismo politico e dalla comune ideologia della violenza.

Come egli affermò più volte alla Camera, il fascismo svolgeva nelle campagne una funzione di vera e propria «guardia bianca» degli interessi della grande borghesia agraria. Tuttavia, Matteotti non dimenticava che vi erano ceti medi borghesi, soprattutto urbani, leali verso i valori democratici. A questi si rivolgeva per sollecitarne l'attivismo a difesa della libertà messa in pericolo dal nascente fascismo. Rivelava in tal modo di avere profondamente meditato la lezione revisionistica di Antonio Labriola, quella di conciliare alcuni approdi del marxismo con i principi del liberalismo usciti dalla Rivoluzione francese.

Per Matteotti, come per Labriola, si trattava «della rag giunta consapevolezza storica del rapporto [...] che corre tra la lotta per il diritto e lotta per il socialismo, tra l'afferma zione degli elementi universali della democrazia politica e quella degli elementi, in certo senso più specifici, che attengono all'opera di costruzione di una società socialista» (C. Carini, Giacomo Matteotti. Idee giuridiche e azione politica, Olschki, Firenze 1984, p. 75). Questa scoperta della universalità dei valori della democrazia lo farà schierare contro il fascismo, ma anche contro il comunismo. In una delle sue ultime iniziative, scrivendo alla direzione del PCI, non esiterà a dichiarare: «Voi siete comunisti per la dittatura e per il metodo della violenza delle minoranze; noi siamo socialisti e per il metodo democratico delle libere maggioranze. Non c'è quindi nulla di comune tra noi e voi» (G. Matteotti, Non c'è nulla di comune tra noi e voi, «La Giustizia», 17 aprile 1924). E sarà proprio la corrività da parte dei socialisti massimali sti verso l'uso dei metodi violenti nella conquista del potere a rappresentare per lui il principale freno nella ricerca di una nuova intesa con loro, nella prospettiva di una riconciliazione dei due tronconi dell'originario partito socialista. Nel primo semestre del 1921, lo squadrismo agrario mise a segno, in provincia di Rovigo, i suoi colpi più efficaci, abbattendo quasi tutti i simboli della presenza delle organizzazioni sindacali e partitiche 'rosse'.

In questa drammatica temperie, incessante fu la sua azione di denuncia delle efferatezze del fascismo padano, sia in Parlamento sia sulla stampa socialista, e, attraverso questa battaglia, egli venne rivelandosi dirigente di levatura nazionale, autentico leader delle classi proletarie. Il fallimento del cosiddetto 'sciopero legalitario' dell'agosto 1922, indetto dalle forze della sinistra per protestare contro le violenze dello squadrismo fascista, segnò il punto di non ritorno nella traiettoria divergente tra massimalisti e riformisti. Al successivo congresso in ottobre, tenuto a Roma poche settimane prima della 'marcia su Roma', i riformisti, allontanati dal PSI, fondarono il PSU, alla cui segreteria venne chiamato Giacomo Matteotti.

Con l'avvento del governo Mussolini, gli avversari più aspri di Matteotti, all'interno del suo partito, si rivelarono i 'collaborazionisti' Baldesi, Colombino e D'Aragona, che tentarono in tutte le maniere di liberarsi dell'ingombrante segretario per sostituirlo con qualcuno più conciliante verso il fascismo. L'ostilità dei leader sindacali mode rati giunse persino ad avversare la pubblicazione di Un anno di dominazione fascista, che Matteotti scrisse con l'intento – come ha scritto Stefano Caretti – «di contrapporre concretamente 'numeri', 'fatti' e 'documenti', alla tendenziosa propaganda mussoliniana che si studiava proprio allora di consolidare il potere, accreditando in Italia e all'estero l'immagine salutifera di un fascismo sorto provvidenzialmente in armi per restaurare l'autorità e la dignità dello Stato con tro il 'sovversivismo bolscevico'» (Introduzione di S. Caretti in G. Matteotti, Scritti sul fascismo, Nistri-Lischi, Pisa p. 15). Matteotti si era scagliato contro Baldesi, D'Aragona 1983, e gli altri 'collaborazionisti', non esitando a bollarli con la battuta «vogliono il nulla perché sono nulla» (Filippo Turati attraverso le lettere di corrispondenti (1880-1925), a cura di A. Schiavi, Laterza, Bari 1947, p. 272).

Più volte fu sul punto di dimettersi: lo ricordava egli stesso in una lettera a Turati senza data, ma del febbraio-marzo 1924, in cui esortava il vecchio leader a liberarlo «da un incarico che doveva essere provvisorio per due mesi e si è prolungato invece per oltre un anno» (Filippo Turati attraverso le lettere di corrispondenti (1880-1925), cit., p. 273). Le pressioni della 'destra' per sostituirlo alla segreteria trovarono un'autorevole conferma molti anni dopo da parte di Nullo Baldini, vecchio dirigente delle cooperative rosse in Polesine. Questi, nel luglio 1943, in un incontro con il giovane Matteo Matteotti, il figlio di Giacomo, ricordava che in quel lontano 1924 alcuni dirigenti del PSU avevano cercato più volte di allontanare Giacomo Matteotti dalla segreteria «perché era intransigente e dava l'esempio nel combattere la vigliaccheria. Poi ci ha pesato il fascismo a sostituirlo» (M. Matteotti, Quei vent'anni, Rusconi, Milano 1986, p. 175).

Matteotti era consapevole che dietro le iniziative 'collaborazioniste' della destra del PSU vi fosse anche Turati, il quale aveva più volte rimproverato a Matteotti una «ostilità preconcetta» nei confronti di Baldesi (Filippo Turati attraverso le lettere di corrispondenti (1880-1925), cit., p. 207). Il vecchio leader era probabilmente influenzato da Anna Kuliscioff, la quale non aveva mai nascosto le proprie convinzioni su un ritorno più o meno rapido del fascismo a una dialettica politica normalizzata, e per questo appoggiava il possibilismo degli organizzatori sindacali contro quello che definiva il catastrofismo dei Matteotti e dei Modigliani, assolutamente ostili a qualsiasi apertura verso il fascismo. Rispetto alla miopia politica di alcuni dei più autorevoli dirigenti socialisti, Matteotti appare tra i pochi – se non l'unico – ad aver capito la profonda e irriformabile voca zione totalitaria del fascismo.

Matteotti fu un avversario deciso della legge Acerbo, con la quale Mussolini, modificando il sistema elettorale in senso maggioritario, intendeva rendere più stabile la sua pol trona di capo del governo. Manifestando una particolare lungimiranza, il leader socialista era convinto che il rafforza mento dell'esecutivo, derivato dalla nuova legge elettorale, rappresentasse per Mussolini il passaggio a un regime politico autoritario. In una lettera in data 25 giugno 1923 a Ugo Guido Mondolfo, egli paragonava la legge maggioritaria presentata dal capo del fascismo all'analogo tentativo posto in atto da Luigi Napoleone, il futuro Napoleone III, dopo il 1848, che aveva in effetti rappresentato il preludio al suo successivo colpo di stato del 2 dicembre 1851.

Nel corso del lungo dibattito parlamentare che fu necessario per far passare la legge di riforma di Acerbo, egli scriveva a Mondolfo: «Nei brevissimi ritagli di tempo sto vedendo delle singolari analogie col 1848 in Francia e gli inizi di Napoleone il Piccolo. Se tu avessi il tempo, in una decina di giorni, valendoti dei libri di Lavisse, Delagorcie, Marx, Renard, potresti fare un opuscolino riassuntivo mettendo in evidenza i punti di maggiore somiglianza» (lettera gentilmente fornita da Massimo Pisa).

Consapevole delle suggestioni esercitate dal fascismo sui collaborazionisti del suo partito, Matteotti era tornato a guardare con insistenza verso sinistra, verso il PSI. Cercava forse in tal modo dei 'compagni di strada' più fidati nella lotta al fascismo, o forse mirava addirittura, come sembra più probabile, a una intesa organica, se non alla riunificazione, con il PSI, libero ora dalla componente comuni sta, per ridurre l'influenza e le pressioni sulla segreteria da parte della destra moderata e collaborazionista. Per questo egli fece più volte intendere di essere tornato a riflettere in modo critico sui motivi che nel 1922 avevano indotto i riformisti alla scissione.

Nell'ottobre 1923, scriveva al giornale «Avanti!» una nota in cui, al di là della vena ironica, traspare evidente una certa volontà di riaprire un dialogo con i massimalisti sul terreno dell'antifascismo: «E allora vi domando: vi credete voi veramente forti, tanto capaci, da riuscire, ad aiutare, voi soli, nemmeno fusi, il proletariato a liberarsi dalla presente gravissima condizione di danno e di oppressione? Se sì, e se mi comunicherete la vostra ricetta unica, allora soltanto vi potrei dare ragione» (Archivio Fondazione Pietro Nenni).

Della necessità d'un rinnovato dialogo con i massimalisti nella prospettiva di un ritorno a un unico partito accennò anche ai dirigenti laburisti nel corso del suo viaggio a Londra di fine aprile del 1924, confidando loro i suoi più recenti tentativi «di condurre a termine la fusione con i massimalisti» e di auspicare «che ciò avvenisse entro pochi mesi» (Labour Party Archive). A Londra, Matteotti affrontò con i dirigenti laburisti anche altre questioni, relative all'opera del governo fasci sta, accennando in particolare a due decreti-legge che il governo Mussolini aveva firmato o si accingeva a firmare.

Tra questi, vi era l'accordo con una compagnia petrolifera americana, la Sinclair Oil, a cui Mussolini aveva deciso di affidare il monopolio della ricerca del prezioso minerale liquido in due delle più promettenti regioni italiane, la Sicilia e l'Emilia-Romagna. Il decreto era ormai alla firma del re. Sappiamo ciò che pensava Matteotti di questo accordo grazie a un suo articolo pubblicato dalla rivista londinese «English Life», dal titolo Machiavelli, Mussolini and Fascism, uscito postumo, nel luglio 1924, ma scritto nella seconda quindicina di maggio, subito dopo il suo rientro da Londra. Egli affermava che, diversamente da quanto sostenuto dal governo, la Sinclair Oil non era indipendente ma era strettamente connessa alla «piovra Standard Oil Company» che già deteneva in Italia il monopolio della distribuzione. Nell'articolo, Matteotti inoltre faceva un'altra grave affermazione, gravida di conseguenze: dichiarava di essere personalmente al corrente di gravi irregolarità commesse da alti funzionari del governo nella stipulazione dell'accordo, facendo anche intendere di sapere chi fossero i corrotti.

Egli collegava il ricorso del fascismo a pratiche di corruttela alla necessità di finanziamento dei propri giornali, bollando la condotta di molti alti dirigenti fascisti, i quali conducevano «una formidabile campagna nei riguardi di imprese pubbliche e semi pubbliche a mezzo della stampa fascista od altre organizzazioni mirata al profitto e ai propri interessi». È evi dente in questo passo l'allusione a giornali come «Il Popolo d'Italia» e il «Corriere Italiano», che vivevano dei finanziamenti elargiti più o meno spontaneamente dal mondo finanziario e industriale. Che fosse intenzione di Matteotti di denunciare in Parlamento la rete corruttrice dei fascisti al governo, lo rivelarono i suoi interlocutori laburisti alcuni giorni dopo la sua morte. Il «Daily Herald», l'organo del par tito laburista inglese, rendeva infatti noto, con un articolo dal titolo Crisis over Italian M.P.'s murder, apparso il 17 giugno, che lo stesso Matteotti aveva riferito loro, «durante la sua permanenza nella capitale britannica, che stava per denunciare un grosso scandalo, legato alle concessioni petrolifere e agli inferni del gioco d'azzardo».

Che uno dei moventi del delitto fosse il timore dei fratelli Mussolini, Benito e Arnaldo, di una denuncia pubblica di corruzione da parte di Matteotti che li chiamasse in causa, lo conferma un documento proveniente dagli archivi americani, esposto nella mostra, cioè il testamento di Amerigo Dùmini, l'assassino e capo della Ceka fascista, la polizia segreta di Mussolini, che portò a termine il crimine. Costui, temendo di venire assassinato, riusciva a far pervenire all'estero una sua memoria, in cui confessava di avere ucciso il deputato socialista su ordine dei vertici fascisti, per il timore che questi potesse denunciare Arnaldo Mussolini per suoi loschi affari legati alla Sinclair Oil («Il Ponte», 2, marzo-aprile 1986). Il forte discorso di denuncia di Matteotti del 30 maggio fece il resto.

Fu per i corrotti la prova della determinazione e del coraggio del deputato socialista, e la certezza per loro che egli non si sarebbe fermato davanti a nessun ostacolo. Un giorno o due dopo il rapimento di Matteotti, la moglie Velia incaricò il grande fotoreporter Adolfo A. Porry Pastorel di documentare, per quanto fosse possibile, tutto ciò che riguardava indagini, ricerche ed eventuale ritrova mento del corpo – tutto quello che potesse rappresentare una testimonianza di questa grande tragedia. A. Porry Pastorel seguì gli sviluppi della vicenda, dalla sparizione al ritrovamento del cadavere alla Quartarella due mesi dopo, lasciandoci in eredità un reportage di qualche centinaio di foto, che sono ormai delle icone della storia del Novecento.

Alcune di queste foto fanno parte della mostra e credo che illustrino la tragedia del giugno 1924, la drammaticità del momento storico, in modo sicuramente più efficace di molte parole scritte su di essa. Carlo Rosselli nutrì una profonda stima per la figura di Matteotti. In una lettera a Pietro Nenni senza data, ma della metà degli anni Venti, che fa parte della mostra, scriveva: «Tu mi parlasti una volta e in modo che mi commosse, di Matteotti; e mi dicesti che ti sarebbe piaciuto dar la vita per l'idea, così come lui la dette, e ci trovammo concordi nel lamentare l'assenza totale di spirito di sacrificio e di sete di sofferenza tra i nostri amici. Anch'io spesso ho sognato di poter finire così utilmente la mia vita per una così grande causa. Ma badiamo bene di non fare anche della retorica su Matteotti. Matteotti non voleva e non cercava la morte. Volle e cercò la lotta; volle e cercò i posti di responsabilità nelle ore più dure, seppe vincere tutti i giorni, e perdere tutti i giorni la sua piccola battaglia. Io ammiro in lui la fede di tutte le ore, la tenacia, la costanza, l'ottimismo contagioso, il volontarismo sfrenato» (Archivio Fondazione Pietro Nenni).

Rosselli ereditò e coltivò l'immenso patrimonio morale di Matteotti, fatto di amore per la democrazia e la libertà. Quando accorse in Spagna, volle intitolare a lui il nome del suo battaglione, costituito da esuli antifascisti, che si batté nella guerra civile a fianco dei repubblicani contro il franchismo. Durante la Resistenza, Nenni e Sandro Pertini, da parte loro, vollero intitolare al martire antifascista le formazioni partigiane d'ispirazione socialista, le 'brigate Matteotti', costituite per combattere il nazifascismo e per la liberazione del Paese.

L'Italia, uscita dall'incubo fascista e ancora sotto le macerie di una guerra combattuta sul proprio suolo, sentì l'urgenza di tornare su quel nefando crimine del giugno 1924 e sul processo farsa di Chieti del 1926, la cui sentenza aveva consentito agli assassini di tornare in libertà di lì a pochi mesi. Fra i primi atti della Repubblica, succeduta alla compromessa monarchia sabauda, vi fu la decisione di celebrare un nuovo processo per i mandanti e gli esecutori del delitto Matteotti sopravvissuti al fascismo. Si trattò di una decisione profondamente simbolica. Si intendeva porre in tal modo il grande patrimonio morale di libertà e democrazia ereditato dal sacrificio di Matteotti a fondamento della Carta costituzionale e di una nuova stagione della storia del nostro Paese.

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Mostra: Giacomo Matteotti. Vita e morte di un padre della democrazia

Roma - Museo di Roma

Apertura: 01/03/2024

Conclusione: 16/06/2024

Organizzazione: Roma Capitale, Museo di Roma, C.O.R. Creare Organizzare Realizzare

Curatore: Mauro Canali

Indirizzo: Piazza San Pantaleo, 10 | Piazza Navona, 2 - 00186 Roma

Orario: martedì-domenica 10.00-19.00 | Ultimo ingresso un'ora prima della chiusura | Lunedì chiuso | 1 maggio chiuso

Biglietto: link

Catalogo: edito da Treccani

Per info: +39 060608 | museodiroma@comune.roma.it

Sito web per approfondire: https://www.museodiroma.it/



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