Il 14 ottobre la Galleria Lombardi inaugura l'esposizione di Mario Schifano Visioni dell'anima, a cura di Lorenzo ed Enrico Lombardi.
In mostra circa trenta opere che ripercorrono l'opera di uno dei maggiori protagonisti dell'arte italiana del secondo Novecento. La sua pittura spazia dall'interesse per i nuovi media all'amore per il paesaggio, dall'omaggio all'archeologia e ai grandi maestri del passato alle iconiche immagini dei suoi anni, coprendo un arco di tempo che va dai favolosi anni '60 fino agli anni '90, attraverso i notissimi Paesaggi Anemici, le tele emulsionate e monocrome, le Stelle, i cavalli e le Oasi fino ai Gigli. "E' in occasioni di questo tipo, in mostre siffatte, che si ha modo di considerare cosa fu Schifano: un vulcano. L'arte fu per lui un istinto, una forza, un flusso. "C'è chi l'arte la fa e chi la è. Lui era la sua arte", scrive Guglielmo Gigliotti nell'ampio catalogo che accompagna la mostra, con un interessante apparato esplicativo di Ilaria D'Ambrosi. "Schifano è i suoi quadri", diceva Goffredo Parise, "guardate i suoi quadri e conoscerete Schifano"
Nelle opere, eseguite su carta e su tela, si susseguono orizzonti e paesaggi (Particolare di paesaggio, prima metà anni '70), i ricordi del deserto e del cielo africano, luogo di origine dell'artista, l'influenza della storia, di Giacomo Balla e dei Futuristi in primis (la serie dei Futurismo rivisitato) poi di Kazimir Malevic (Io sono K. Malewitsch e non sono morto nel 20, 1966) e le sperimentazioni fotografiche che si fondono con la pittura (Paesaggio tv, seconda metà anni '70).
Schifano si muove tra le tecniche con naturalezza, dalla grafite allo smalto, dallo spray alla vernice fluorescente, dal lumen all'aerografo, delineando frammenti di nuvole e prati, sagome sfuggenti come ricordi (Cavallo rosa, primi anni '80), simboli del suo presente (Propaganda, 1979) recuperando poi della pittura, negli anni '90, la rapidità del gesto e l'impeto cromatico (Acquatico, 1989 e Gigli d'acqua, 1989).
Vita, arte e miracoli di Mario Schifano (testo di Guglielmo Gigliotti)
Chi è Mario Schifano?
Forse neanche lui avrebbe saputo rispondere a questa domanda.
D'Altronde, Ulisse, alla richiesta del suo nome da parte di Polifemo, disse di chiamarsi "Nessuno".
Diciamo allora che Schifano fu sé stesso quando si lanciava alla ricerca della sua condizione di Nessuno: lì lui era Tutti, perché condizione universale.
Siamo, quindi, un po' tutti Schifano, ma non sempre. Lo siamo quando, incontrando una sua opera, essa fa vibrare corde profonde e nostre, corde inconsce, sintonizzate con la vastità indivisa della vita, che affratella tutto a tutti.
Santo e demonio, Schifano fu un Grande Irrequieto che trovava la via della salvezza solo per perderla. Sperimentatore indefesso, bruciava le sue tappe come sé stesso, alla ricerca di un ancoraggio possibile, ma alfine sempre sfuggente, alla realtà. Il disordine scomposto e montante del mondo che gli roteava intorno non presentava alternative alla sua energica fragilità, se non quella di calzarvisi con tutto sé stesso. Per questo, se vogliamo capire meglio chi siamo, e cos'è il mondo, dobbiamo guardare Schifano, e oggi più ancora che in passato, perché Mario Ulisse Schifano ha viaggiato per mari al contempo ancestrali e moderni, scorgendo terre future.
Il senso di questa mostra alla Galleria Lombardi è anche questo. Una mostra di una trentina di lavori dagli anni '60 ai '90, con opere rappresentative di quasi tutti i cicli dell'eclettico artista, morto sessantatreenne nel gennaio del 1998: le Propagande, i "Paesaggi anemici", il "Futurismo rivisitato", le "Stelle", le "Palme", gli omaggi ai grandi dell'arte (Malevič), i "Paesaggi Tv", i "Cavalli", i "Gigli d'acqua", le prove neoespressioniste del ritorno alla pittura degli anni '80. Arte come nevrosi e al contempo come cura della nevrosi. Schifano pensava le opere facendole, era tutt'uno con quella proiezione fantastica fuori di sé chiamata arte, che è pure áncora di salvezza, anche se mai definitiva. Ogni opera, un gancio al cielo e un invito all'inferno. Schifano è tra le figure più vere e tragiche dell'arte italiana del XX secolo. Ogni opera è un punto di domanda rivolto al mistero della vita, ogni lavoro è la materializzazione di un "perché" che non cerca risposte, se non mute, fugaci e metamorfiche. Ogni opera di Schifano è, infatti, un'opera aperta, l'Ulisse dell'arte italiana non chiude mai le sue opere: esse non sono porti, ma ponti.
E a volte ponti verso il passato. L'avanguardia di Schifano era un Giano bifronte, guardava avanti, non dimenticando il - cosiddetto - passato, quello della propria infanzia, ma anche quello remoto delle civiltà antiche.
Era nato nel 1934 tra i deserti della Libia, nella città di Homs (oggi Al Khums), sita a pochi chilometri da Leptis Magna, metropoli del mondo antico, i cui magnifici ruderi il padre Giuseppe, archeologo, contribuì a dissotterrare: ecco il primo contatto con Roma, una Roma di colonne antiche e pietre frante, maestosa e morta; ecco il primo contatto con lo spazio, quello luminoso del deserto, inframmezzato da oasi, le cui palme riemergeranno in tante opere-ricordo, realizzate dall'adulto-bambino ("Io sono infantile" è il titolo di un suo ciclo di opere), che nella vita fu sbadato e smemorato, ma non per le cose essenziali. Di notte, il cielo africano era un trionfo di stelle: anche loro saranno omaggiate per tutta la vita. E poi l'incontro con gli etruschi, in qualità di aiuto restauratore e addetto alla lucidatura di disegni, al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, dal 1951 al 1962. Tutto nacque lì. "Era un lavoro di un tedio mortale", racconterà Schifano, "ma fu da quelle esperienze che nacque in me l'dea di dipingere (...). Guerrieri, tombe, templi di quel mondo fanno parte della mia storia privata". Cosa fa Schifano a Villa Giulia? Dopo bocciature multiple in prima e seconda media (erano tornati in Italia nel 1941), seguite da espulsione scolastica, il padre lo aiuta a trovare una sistemazione presso l'istituzione nella quale lavora. È un padre preoccupatissimo per la sorte di questo figlio che considera sfaticato. Ci penseranno gli etruschi, notoriamente esperti maghi e vaticinatori del futuro, ad aprire al giovane sbandato la strada della vita. Ci penserà l'Apollo di Veio, capolavoro della plastica di tutti i tempi, al cui restauro Mario Schifano collabora, a captare, per misterioso sortilegio, negli occhi del giovane una luce capace di radiografare l'essenza delle forme, per incarnarla in gesti e visioni. Senza questa grande scultura plasmata in terracotta cinque secoli prima della nascita di Cristo, non sarebbe nata la pop art di Schifano Mario, ventiquattro secoli dopo. La sintesi formale, l'asprezza dei tagli, l'immediatezza espressiva, la pregnanza di ogni particolare: è stata questa l'Accademia del segno e del sogno del giovane collaboratore al laboratorio di restauro di Villa Giulia. L'assenza di filtri intellettuali e di schemi culturali, permise per di più a Schifano di compenetrare il linguaggio antico anche più di quanto ne fosse cosciente.
Ma poi la lucidatura dei disegni: un gesto meccanico, freddo, operato sui segni altrui: non è lo spirito della pop art, inconsciamente appreso operando sull'arte arcaica?
Dal luogo di lavoro Schifano tornava verso casa in bicicletta: ecco la seconda Accademia, quella dei cartelloni pubblicitari ("O si andava nelle gallerie a vedere i quadri informali, o si andava nelle strade a vedere i cartelloni pubblicitari. Io scelsi di andare nelle strade"). Pedalando con gran gusto (Schifano era un appassionato ciclista), da Villa Borghese a Cinecittà, dove abita, attraversa tanti quartieri storici di Roma, e cosa vi trova? Leptis Magna, la Roma d'Africa, la Roma nel deserto, la Roma dell'infanzia, con il Mediterraneo di fronte ("dall'altra parte c'è l'Italia", gli diceva la madre). Quella che vede però è la madre della Roma africana, come un guscio che ne contiene un altro. È questa la terza Accademia di un artista che non frequentò mai una scuola d'arte, ma solo la scuola della vita. La seconda Roma conosciuta da Mario, storicamente la prima, con il suo viluppo dei tempi, le sue stratificazioni che, come aveva intuito Freud, somigliano a quelle dell'inconscio, è un capolavoro plurimillenario sotto il cielo, in cui poter incontrare pubblicità moderne e sculture etrusche, la vita vera e il sublime. Schifano amava Roma. Dirà: "Roma è città sanguigna, organica, intensa (...). Mario Merz diceva che poche persone riescono a cavarsela dignitosamente con la città di Roma. E lui pensava che io ce l'avevo fatta".
Sì, Schifano interiorizzò Roma, metaforizzandola nell'idea circolare del tempo. Circolare divenne infatti l'arte-vita di Schifano, fatta di ritorni, recuperi, ricordi, di affondi nel passato individuale e collettivo, onde renderlo motore inconscio di una modernità di cui l'artista romano-africano è stato tra i maggiori interpreti al mondo.
D'altronde, la stessa pratica del restauro è recupero di un oggetto, mediante ripristino di un suo stato precedente e originario. È il padre Giuseppe a istradare il figlio verso questa "arte", che nella coscienza del giovane ha figliato l'altra arte, quella in senso stretto. Il genitore ha generato, senza saperlo e senza volerlo, un grande artista, secondo uno di quei flussi misteriosi della vita che sembrano guidati dalle leggi segrete del caso, o dalla volontà capricciosa degli dei.
Il rapporto con l'antico è, quindi, un po' anche il rapporto col padre. Ma poi esistono altri "padri", quelli che ci ispirano, senza averci generato. Sono i maestri. Schifano li individua da subito, iniziando già dal '64 ad omaggiare i futuristi, e poi, con opere snocciolate fin tutti gli anni settanta, de Chirico, Magritte, Cézanne, Picabia, Malevič. Il viaggio a ritroso nel tempo di Schifano trova quindi approdi più vicini dell'arte etrusca, per quanto i tempi dell'arte non procedano per secoli, ma per intensità: un'opera antica può essere sorella di una moderna, se capace di far vibrare corde affini, chiuse nello spazio del nostro cervello. Fatto sta che Schifano si appella all'arte di due generazioni precedenti la sua, innescando dialoghi ideali. Quello con Malevič (o Malewitsch) è tra i più significativi. In mostra presso Lombardi c'è proprio un'opera di questo ciclo dedicato all'artista ucraino (e non russo), una tecnica mista su carta del 1966, in cui campeggia la sagoma del padre dell'astrazione assoluta, con la testa circondata dal "quadrato bianco" da lui dipinto "su fondo bianco" nel 1917. Libera fluttua una scritta, che è una dichiarazione di poetica (di Malevič e di Schifano): "Io sono K. Malewitsch e non sono morto nel 20". Il testo fa riferimento alla stagione 1920-25 dell'arte di Malevič, in cui il padre dell'arte monocroma si astenne dal realizzare opere, non ritenendo però di aver rinunciato alla sua funzione di artista. "Un artista è tale anche quando non realizza opere." Malevič diceva, infatti, che in quegli anni si era dedicato al pensiero sull'arte, e questo bastava. È un atteggiamento rispetto all'opera immateriale del pensiero, in cui Schifano si riconosceva, e in cui individuava le radici delle sue meditazioni sull'immagine. Non solo quelle monocrome, che realizzò nei primi anni '60, avendo sicuramente a mente il coraggio estetico dell'ucraino, ma tutte le immagini da lui prodotte, essendo esse sempre frutto di una consapevolezza storica concernente la fine dell'immagine in senso classico, una fine che coincideva con la sua origine: era la super-immagine tecnologica che si sposava col suo azzeramento (che non è morte).
La pista di Malevič ci permette, peraltro, di scoprire ulteriori territori segreti della mente creativa di Mario Schifano. Scrisse l'ucraino: "Ho attraversato lo schermo blu del limite del colore e sono penetrato nel bianco; vicino a me, compagni nocchieri, navigate in questo spazio senza fine. Un mare bianco si stende davanti a voi". Per la Storia dell'arte queste parole sono un inno alla monocromia come mistica dell'infinito pittorico, per Schifano devono aver evocato l'immensità bianco-luce dei deserti dell'infanzia, una vacuità psico-visiva densa di possibilità di pace. I monocromi di Schifano furono per questo anche ricordi di deserti.
Su quei monocromi, dal '63 iniziarono a comparire le grandi scritte dei marchi Esso e Coca-Cola, come forma di oggettivazione, desemantizzazione e sovradimensionato dei simboli - svuotati - del consumismo: una critica sottile, non un'adesione, come capita di leggere. Opere di questo e d'altro genere animano ora la presente mostra, che si presenta anche come occasione di riflessione su un artista che fu anche coscienza profonda e intelligenza creativa tra le più fertili apparse nella seconda metà del '900, la cui missione postuma non è meno gravida di suggestioni civili e culturali di quanto emerso in vita.
Mostra: Mario Schifano. Visioni dell'Anima
Roma - Galleria Lombardi
Apertura: 13/10/2023
Conclusione: 02/12/2023
Organizzazione: Galleria Lombardi
Curatore: Lorenzo ed Enrico Lombardi
Indirizzo: Via di Monte Giordano 40 - 00186 Roma
Inaugurazione: sabato 14 Ottobre ore 18:00
Orario: martedì - sabato 11:00 – 19:00
Per info: Tel. 06 31073928 - +39 333 2307817 | info@gallerialombardi.com
Testi in catalogo: Guglielmo Gigliotti, Ilaria D'Ambrosi
Sito web per approfondire: https://www.gallerialombardi.com/
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